Se domani ti licenziano, sei pronto?

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Amazon si prepara al più grande licenziamento collettivo della sua storia: 30.000 dipendenti coinvolti, circa il 10% del suo personale corporate. Un evento che ha sollevato non poche preoccupazioni…siamo di fronte ad una svolta nel mondo del lavoro? E soprattutto: come si potrebbe fare per prevenire i danni di un licenziamento?

Perché le aziende licenziano?

I licenziamenti non sono una novità nel mondo aziendale, ma il caso di Amazon colpisce per l’entità dei tagli e per il momento in cui avvengono: l’azienda sta tagliando posti di lavoro proprio nel momento in cui, in realtà, continua a registrare profitti record. 

Pur avendo storicamente un alto turnover, soprattutto nei magazzini, Amazon ha raramente effettuato licenziamenti di massa di questa portata.

Parliamo di 30.000 dipendenti – circa il 10% degli impiegati negli uffici. Un numero enorme, vero? Eppure, se allarghiamo lo sguardo all'intera forza lavoro di Amazon – circa 1,5 milioni di dipendenti in tutto il mondo – si tratta di appena il 2% del totale. Una prospettiva diversa che ridimensiona i numeri, ma non cambia la sostanza: sono comunque 30.000 persone che perdono il lavoro.

E non si tratta di un caso isolato.

Negli ultimi mesi anche Microsoft, Meta, Intel, Accenture e altre società americane hanno annunciato significative riduzioni del personale. Dopo la rapida espansione avvenuta post pandemia, molte grandi aziende stanno ora ricalibrando costi e strutture per adattarsi al nuovo contesto economico.

Ma quali sono le ragioni di questi licenziamenti? C’entra la tanto discussa AI?

Le aziende motivano i tagli con ragioni diverse:

Amazon ha parlato di "cultura aziendale" e necessità di "eliminare livelli gerarchici".

Microsoft è stata più trasparente affermando che strumenti come Copilot scrivono il 30% del codice ogni giorno. Intere linee di junior developer sono diventate superflue.

IBM ha eliminato ogni ambiguità: 8.000 persone del dipartimento HR sostituite con un chatbot interno. 

Ma i licenziamenti di massa non riguardano solo i giganti tech. Le motivazioni che vengono citate sono diverse:

C’è chi riduce il personale per avviare un piano di rilancio o di efficienza interna, come nel caso di Intel, che ha annunciato tagli significativi (circa il 15–20% della forza lavoro) per contenere i costi e recuperare competitività.

E c’è chi interviene sull’organico a seguito di operazioni straordinarie, come fusioni o acquisizioni. Paramount, ad esempio, ha ridotto il personale di circa 2000 dipendenti dopo la fusione con Skydance, per integrare le strutture e eliminare duplicazioni.

Anche se le motivazioni dei licenziamenti variano, un filo comune emerge: molte aziende ricorrono all’automazione per ridurre i costi operativi. 

Pensate ad esempio che nel caso di Amazon il piano potrebbe portare a oltre 2 miliardi di dollari di risparmi all’anno. 

L’automazione non è una novità: negli ultimi decenni molte attività, dai caselli autostradali alle casse dei supermercati fino ai sistemi di prenotazione online, sono state automatizzate.

Oggi, però, assume una portata completamente nuova: grazie all'intelligenza artificiale, la tecnologia non si limita più a svolgere compiti ripetitivi. Può analizzare dati, prendere decisioni e, in una certa misura, "pensare" in modo simile a come facciamo noi essere umani. 

Ciò significa che molte altre mansioni che oggi richiedono persone potrebbero presto essere eseguite dai computer.

Gli sviluppi osservati nelle grandi aziende americane non sono fenomeni isolati: l’automazione è un trend globale che interessa anche altri Paesi, Italia compresa. Vale quindi la pena chiedersi quale sia l’impatto sul nostro mercato del lavoro. Anche noi saremo colpiti da questa ondata di licenziamenti?

Se guardiamo ai dati, l’impatto dell’AI sul mercato del lavoro italiano non è ancora oggi visibile. Pensate che nel 2025 il tasso di disoccupazione è sceso al 6% circa, vicino ai minimi storici. 

Ma è ovviamente ancora presto per trarre conclusioni.

L’impatto dell’AI sul lavoro non si manifesta dall’oggi al domani: tra l’introduzione di una nuova tecnologia e la riorganizzazione effettiva dei ruoli possono passare mesi, a volte anni. Soprattutto nei paesi dove l’innovazione è più lenta e il mercato del lavoro meno flessibile, come in Italia.

Ma quindi cosa potrebbe accadere in futuro? 

Non possiamo saperlo con certezza, ma possiamo provare a trarre indicazioni dal passato. Ogni rivoluzione tecnologica ha, in effetti, mostrato come il lavoro si trasformi costantemente in risposta all’innovazione, eliminando molte mansioni.

Ma attenzione…ne ha anche generate di nuove.

Pensiamoci: i telai meccanici eliminarono i tessitori manuali, ma crearono fabbriche e operai specializzati. I computer ridussero il lavoro di calcolo manuale, ma diedero origine a programmatori. Internet ha chiuso molti negozi fisici, ma ha fatto crescere e-commerce e logistica.

E infatti, il World Economic Forum stima che l'AI eliminerà 92 milioni di posti entro il 203. Ma ne creerà 170 milioni. 78 milioni in più. 

Bisogna a questo punto porsi una domanda: chi perde il lavoro oggi è la stessa persona che ricoprirà la nuova mansione creata? 

Tendenzialmente no...
Un cassiere sostituito da una cassa automatica non diventa il tecnico che la ripara.
Un operatore sostituito da un chatbot non diventa il data scientist che lo addestra.

Primo consiglio: investi in te stesso

Il punto, quindi, non è solo se l’innovazione “toglie lavoro” o lo “crea”: storicamente fa entrambe le cose. Il problema per noi lavoratori è il tempo della transizione.
I lavori che spariscono lo fanno subito; quelli nuovi arrivano dopo e richiedono competenze diverse. La sfida, quindi, è chi riuscirà a riqualificarsi abbastanza rapidamente.

Proprio per questo, il primo consiglio che posso dare dalla mia esperienza, ancor prima di scendere nella finanza personale, è investire continuamente nella propria formazione

Aggiornare le competenze permette di restare allineati alle esigenze del mercato, ridurre il rischio di perdere opportunità e, più in generale, aumentare la propria sicurezza professionale.

Detto ciò, c’è un aspetto che va riconosciuto con realismo: non tutto dipende dalle proprie competenze. Anche i professionisti più preparati possono trovarsi in difficoltà se l’azienda attraversa una crisi o se il mercato cambia improvvisamente.

Gli ingegneri di Kodak non hanno perso il lavoro perché non fossero bravi, ma perché l’azienda ha reagito in ritardo all’arrivo del digitale. I piloti e il personale di Alitalia non erano impreparati: ma è stata la struttura della compagnia a non reggere più. In situazioni del genere, la professionalità individuale non basta a proteggersi.

Secondo consiglio: fondo di emergenza

Per questo, oltre alla formazione, diventa fondamentale per la propria salute patrimoniale un altro elemento chiave: un fondo di emergenza.
Un fondo che serve a coprire le spese essenziali nel periodo di transizione, quando il reddito si interrompe o si riduce.

Ma quanto sarebbe prudente avere accantonato in un fondo di emergenza?

Partiamo dal presupposto che in Italia, in determinata casi, hai alcune tutele. 

Il TFR – che corrisponde a circa una mensilità per ogni anno lavorato – può essere liquidato direttamente dall’azienda oppure, in parte, prelevato dal fondo pensione. Anche come dipendente, oltre al TFR, puoi oggi contare sulla NASpI, un sussidio che può durare fino a 24 mesi (mentre autonomi e partite IVA ne restano esclusi). 

Ma sono coperture temporanee e soprattutto non scontate per tutti i lavoratori.
Per questo motivo si consiglia di accantonare una cifra pari a 6–12 mesi delle spese essenziali. La dimensione precisa del fondo, ovviamente, dipende dalla tua situazione personale: più sono alti i costi di vita e il rischio di imprevisti (lavorativi, familiari, di salute), maggiore dovrebbe essere il fondo da parte. È diverso, ad esempio, se vivi da solo e hai un lavoro stabile, rispetto a chi mantiene una famiglia o ha un reddito variabile.

Per rendere il concetto più concreto, facciamo un esempio.

Immagina di avere spese mensili pari a circa 2.000 euro e di venir licenziato. Con un fondo di 12.000 euro potresti essere coperto per sei mesi, mentre con 24.000 euro avresti una copertura di un anno. Questa riserva non serve solamente alla propria sopravvivenza, significa potersi permettere di affrontare imprevisti senza dover prendere decisioni affrettate, vendere i propri investimenti nel momento sbagliato o ricorrere al debito.

Purtroppo, però, la realtà è che per gran parte delle famiglie italiane questo margine non esiste. 

Secondo dei recenti dati (Acri-Ipsos) sulle capacità di spesa, il 76% riesce a coprire solo piccoli imprevisti di breve periodo (fino a 1.000 euro), mentre solo il 38% sarebbe in grado di sostenere un’uscita imprevista di 10.000 euro, equivalente a circa 3–4 mesi di spese per una famiglia media.

Ma ipotizziamo che tu non appartenga alla media italiana, che abbia quindi un fondo di emergenza ma che il periodo di disoccupazione si prolunghi più del previsto. Dopo un po’ i mesi di risparmio messi da parte non sarebbero sufficienti a coprire tutte le spese. In questa situazione il problema, quindi, non è solo lasciare la tua professione, ma quanto a lungo riesci a sostenerti mentre cerchi di rientrare nel mondo del lavoro. 

Terzo consiglio: sfrutta i mercati finanziari

Se questa fase di disoccupazione, infatti, si verifica in età avanzata, intorno ai 55–60 anni, le difficoltà tendono ad aumentare: i ruoli sono più specializzati, le opportunità più selettive e la motivazione non è più quella di un neolaureato.

Ecco perché entra in gioco una possibile soluzione di lungo periodo che può salvaguardare gli ultimi anni, in molti settori i più difficili, della propria carriera: un patrimonio investito nei mercati finanziari. 

Facciamo un esempio per rendere meglio l’idea del concetto.

Immaginiamo una persona che guadagna 2.000 euro al mese e ne spende circa 1.600 euro, riuscendo così a mettere da parte 400 euro ogni mese in un portafoglio ben strutturato e investito sui mercati finanziari.

Se questa persona iniziasse a risparmiare a 25 anni e il portafoglio ottenesse un rendimento medio annuo del 5%, a 60 anni il capitale accumulato sarebbe di circa 455.000 euro.

Ora ipotizziamo che questa persona, a 60 anni (che un domani sarà un’età dalla quale mancheranno probabilmente ancora 10 anni per avere l’età pensionabile), perda il lavoro. Le eventuali indennità – come la NASpI, ammesso che siano ancora disponibili – coprirebbero solo una parte delle spese, e la ricollocazione potrebbe richiedere tempo. In pratica, resterebbe da colmare circa il 20% della propria carriera in una fase in cui le opportunità professionali tendono a ridursi.

In questo scenario, il patrimonio accumulato, i 455.000 euro, diventa una risorsa cruciale. Prelevando infatti ogni anno una quota prudente del 3–4% del capitale – pari a circa 1.300 euro al mese – potrebbero coprire fino all’80% delle spese mensili, integrando così il reddito residuo o le indennità e mantenendo un tenore di vita dignitoso fino al pensionamento completo.

La persona dell’esempio ha fatto un piccolo, ma sano, sacrificio. Ha accantonato il 20% del suo reddito, per mettere in sicurezza, negli anni di carriera più a rischio, l’80% del suo tenore di vita. 

Conclusioni

Questo esempio ci porta a una riflessione finale più ampia: investire NON è solo una prassi per divertirsi sui mercati finanziari o diventare ricco.
È soprattutto un mezzo di protezione. Serve a costruire una riserva che ci permetta di affrontare il futuro che, per definizione, è esposto a fasi di incertezza, come un licenziamento o una riduzione improvvisa del reddito, senza essere costretti a cambiare improvvisamente stile di vita o prendere decisioni affrettate.

Il progresso tecnologico accelera, mentre le carriere si allungano. Se un tempo si lavorava 40 anni (dai 20 ai 60 ad esempio), oggi sappiamo che saranno almeno 50, complice l’aumento dell’età pensionabile.
In un periodo così lungo, è realistico aspettarsi una miriade di novità dettate dal progresso tecnologico. Novità alle quali, se non rimaniamo aggiornati, potrebbero seguire interruzioni di reddito. 

Per questo motivo costruire una strategia di lungo periodo significa, prima di tutto, creare un cuscinetto finanziario: uno strumento che ci permette di gestire gli imprevisti con lucidità, tempo e serenità e che trasforma l’incertezza in stabilità.

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Davide Berti, consulente finanziario

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Pensione e previdenza integrativa

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In un mondo basato sulle dinamiche economiche, dove troppo spesso le conoscenze finanziarie sono limitate o assenti, verificare la professionalità di un consulente è necessario quanto difficile. Per questo affianco al mio lavoro questo progetto di consapevolizzazione.

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