Come Disney ha costruito un impero e perché oggi è a un bivio

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Era l’estate del 1923 quando Walt Disney, un giovane disegnatore e imprenditore americano, decise di partire per la California dopo il fallimento della sua piccola società di animazione a Kansas City. 

La storia di Disney

Aveva poche decine di dollari in tasca, una valigia piena di sogni e una determinazione incrollabile.

In California raggiunse suo fratello Roy. Insieme fondarono la Disney Brothers Studio, una piccola società di animazione in un modesto ufficio a Hollywood. Walt portava la creatività, Roy gestiva i soldi. Nessuno avrebbe immaginato che quei due fratelli stessero per costruire l'impero dell'intrattenimento più potente della storia.

Ma la strada fu tutt'altro che lineare. Nel 1927 crearono Oswald il coniglio fortunato per Charles Mintz, che distribuiva per la Universal Pictures. I cartoni erano un successo, il pubblico li adorava. Quando nel 1928 Walt cercò di rinegoziare per guadagnare di più, scoprì però una verità amara: i diritti di Oswald non appartenevano a Disney, ma alla Universal. E Mintz aveva già reclutato segretamente i suoi migliori animatori.

Fu in quel momento che Walt imparò la lezione più importante: mai più perdere il controllo dei propri personaggi. Tornato a casa furioso, in poche settimane creò un nuovo protagonista.

Nel 1928 debuttò Steamboat Willie, il primo cortometraggio con audio sincronizzato della storia del cinema e con protagonista un topolino, Mickey Mouse. Questa volta ogni diritto, ogni centesimo generato da quel personaggio sarebbe rimasto alla Disney.

Topolino divenne una star mondiale quasi immediatamente: i cinema facevano il tutto esaurito e il pubblico lo adorava. Ma Walt comprese rapidamente che non bastava creare personaggi popolari: bisognava trovare modi per far sì che il pubblico interagisse con loro e li portasse nella vita di tutti i giorni.

Così iniziò a trasformare Topolino in un fenomeno a 360 gradi, con pupazzi, giocattoli, vestiti, fumetti e ogni tipo di merchandising. In pochi anni, il piccolo topo generò milioni di dollari all’anno. Era nata una formula rivoluzionaria, oggi nota come brand extension: creare personaggi amati, raccontare le loro storie e fare in modo che il pubblico possa portarli con sé in ogni forma possibile, dai prodotti al merchandising fino all’esperienza diretta.

Ma Walt voleva spingersi oltre. Nel 1934 iniziò il primo lungometraggio d’animazione della storia, Biancaneve e i sette nani, costato 1,5 milioni di dollari (oltre 30 milioni di oggi). Se falliva, Disney falliva. Nel 1937 il film debuttò e fu un trionfo, incassando oltre 4,2 milioni nel primo anno.

Poi arrivò la guerra. I mercati europei, che rappresentavano metà dei ricavi, svanirono dall'oggi al domani. Disney sopravvisse producendo cartoni di propaganda per il governo.

Ma mentre l'America combatteva, Walt non smise di immaginare il futuro. Sognava un luogo dove le famiglie potessero entrare fisicamente nelle sue storie, camminare nei mondi dei suoi personaggi, vivere le avventure che vedevano sullo schermo.

Circa un decennio dopo, quell'idea prese forma. Il 17 luglio 1955 aprì il primo Disneyland ad Anaheim in California. Walt aveva ipotecato la sua assicurazione sulla vita per finanziarlo. Il pubblico restò estasiato - camminare lungo Main Street, salire sul castello, navigare nella giungla. Le storie prendevano vita.

E qui il modello di business cambiò per sempre. Entro il 1960 il parco generava 46 milioni di dollari, i film solo 7 milioni. L'animazione non era più il core business. Dominavano le esperienze.

Nonostante il trionfo di Disneyland, Walt continuava a guardare oltre. Sognava non solo un secondo parco, ma un'intera città futuristica dove testare nuove tecnologie e modi di vivere in Florida.

Ma mentre questo grande disegno avanzava, la salute di Walt iniziò lentamente a vacillare. Negli anni successivi i problemi si aggravarono, finché il 15 dicembre 1966, a soli 65 anni, morì di cancro ai polmoni, senza poter vedere completato il mondo che aveva immaginato.

A raccogliere il testimone fu suo fratello Roy, già in pensione, che tornò per portare a termine il progetto e nel 1971 aprì ufficialmente il Walt Disney World Resort.

Purtroppo, due mesi dopo, anche Roy morì, lasciando un’eredità straordinaria.

Senza i fratelli Disney al comando, l'azienda entrò in una lunga crisi. Per tutti gli anni '70 e i primi '80 sembrò aver perso la sua magia. Nel 1984 rischiò persino un'acquisizione ostile.

Per salvarsi, il consiglio chiamò Michael Eisner, dirigente della Paramount. Eisner capì subito il problema: Disney era percepita come "roba per bambini". Creò la Touchstone Pictures per film più maturi come Pretty Woman, ma soprattutto riportò in vita l'animazione: La Sirenetta (1989), La Bella e la Bestia (1991), Aladdin (1992), e nel 1994 Il Re Leone.

Nel frattempo, Disney continuava a crescere e a diversificare il suo business: lanciò Disney Channel, aprì i Disney Store e inaugurò Disneyland Paris. Nel 1995 acquisì ABC, una delle principali reti televisive americane, per 19 miliardi, portando in casa anche l'80% di ESPN, il famoso network sportivo statunitense.

Potenza globale

Alla fine degli anni '90 Disney era una potenza globale. Ma la vera rivoluzione doveva ancora arrivare.

Nei primi anni Duemila l'azienda aveva perso slancio creativo. I nuovi film convincevano meno, i personaggi non lasciavano il segno. Nel 2005 arrivò Bob Iger come nuovo CEO. Cambiò completamente approccio: invece di creare personaggi da zero - lungo, costoso, incerto - acquisì universi già amati da milioni di persone.

Pixar (7,4 miliardi, 2006), Marvel (4,3 miliardi, 2009), Lucasfilm (4 miliardi, 2012), 21st Century Fox (71 miliardi, 2019). In pochi anni Disney possedeva praticamente tutti i franchise più iconici del pianeta.

Poi arrivò il 2020. Il COVID-19 colpì il cuore pulsante di Disney: parchi chiusi, cinema vuoti. Ad aprile Disney sospese 100.000 lavoratori senza stipendio. Nel secondo trimestre l'azienda perse 1,4 miliardi e il debito schizzò da 27 miliardi a oltre 50 miliardi. A febbraio, proprio all'inizio della pandemia, Bob Iger aveva lasciato il comando a Bob Chapek

Il mercato reagì con paura e le azioni crollarono di oltre il 30%.

Ma nel disastro, un nuovo protagonista prese il centro della scena: lo streaming. Disney+, lanciato solo pochi mesi prima della pandemia, esplodeva. La gente chiusa in casa si abbonava a milioni. In un anno superò i 100 milioni di abbonati - un traguardo che a Netflix era costato dieci anni.

Wall Street dimenticò i parchi deserti e guardò al futuro. Lo streaming non era solo un'ancora di salvezza - sembrava una trasformazione storica. Disney da azienda di intrattenimento tradizionale a gigante digitale. L'entusiasmo fu tale che a febbraio 2021 le azioni toccarono il picco storico: 200 dollari.

Poi arrivò il contraccolpo della realtà.
Disney+ continuava sì ad aumentare gli abbonati, ma a costo di perdite miliardarie. I parchi, reduci da anni difficili, pesavano ancora sui conti. Trimestre dopo trimestre diventava evidente che lo slancio iniziale dello streaming si era affievolito: la crescita rallentava, i margini restavano negativi e la profittabilità sembrava un obiettivo lontano.

L’arrivo di Bob Chapek aggravò il quadro: le decisioni confuse, i rapporti tesi con i creativi e le scelte strategiche poco chiare fecero perdere fiducia al mercato. Le azioni iniziarono a scendere rapidamente.

Nel novembre 2022 il consiglio richiamò Iger, ma il crollo continuò. A settembre 2023 le azioni toccarono il minimo: 78 dollari – in ribasso di oltre il 60% dai massimi.

Da allora Iger lavorò per stabilizzare la situazione: ha tagliato 7.000 posti, riorganizzato le divisioni, e portato finalmente lo streaming in profitto dopo anni di perdite miliardarie.

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Il business di Disney

Nel 2025 Disney ha generato circa 94,4 miliardi di ricavi con 17,6 miliardi di utile operativo.

Dove guadagna di più? La risposta è nei parchi.

Disney chiama questa divisione Experiences e include i parchi a tema, le crociere, gli hotel e il merchandising fisico - dai pupazzi di Mickey ai costumi di Elsa. Nel 2025 ha generato 36,2 miliardi di ricavi e 10 miliardi di utile operativo - il 57% di tutti i profitti dell'azienda

Oggi nel mondo ci sono 12 parchi a tema Disney in 6 grandi resort e ne è stato annunciato uno nuovo ad Abu Dhabi, che diventerà la settima destinazione Disney; oltre a questo, sono in corso maxiespansioni dei parchi esistenti.

Dopo i parchi, gli altri due grandi segmenti di Disney sono Entertainment e Sports.

Il business dell’Entertainment — streaming, TV tradizionale e cinema — genera 42,5 miliardi di dollari, circa il 44% dei ricavi totali, ma contribuisce solo per 4,7 miliardi, circa il 27% dei profitti.

Questa minore redditività dell’area è spiegata dallo squilibrio interno che emerge tra i vari sotto segmenti. 

La TV tradizionale - i canali come ABC, Disney Channel, FX, National Geographic - è ancora la prima voce per profitti con 3 miliardi di utile – circa il 17% del totale Disney. Ma è in declino strutturale inarrestabile. 

Nella strategia Disney, questa voce è destinata a cedere il passo all’altro grande pilastro dell’area Entertainment: lo streaming. Disney+, Hulu ed ESPN+ rappresentano oggi il segmento in crescita più rapida e, dopo anni di perdite miliardarie, sono finalmente passati in territorio positivo, generando 1,3 miliardi di utile operativo, pari a circa il 7,6% dei profitti totali.

Infine, c'è il cinema - la distribuzione teatrale dei film Disney, Marvel, Pixar, Lucasfilm - che è diventato il segmento più piccolo e volatile: nel 2025 ha contribuito solo 392 milioni di utile - appena il 2,2% dei profitti totali. Un anno può fare miliardi con Inside Out 2 e Deadpool, l'anno dopo brucia centinaia di milioni con flop come Biancaneve.

L’ultimo grande segmento è quello chiamato Sports. Questo è quasi interamente rappresentato da ESPN, genera 17,7 miliardi di ricavi – poco meno del 19% del totale Disney - e 2,9 miliardi di utile operativo - il 16% dei profitti totali

È forte ma sotto pressione: i costi dei diritti NFL e NBA superano i 5 miliardi all'anno e gli abbonati via cavo calano continuamente. L'aumento delle tariffe per gli operatori ha salvato i margini nel 2025 (+19% l'utile), ma non è una soluzione duratura. Per questo Disney spinge verso la ESPN App in streaming, una transizione inevitabile ma delicata.

Ok, quindi, la situazione effettivamente non è così negativa: i vari segmenti si compensano e la fidelizzazione dei fan sembra abbastanza forte.

Beh sì ma se dal punto di vista finanziario la situazione è sotto controllo, le vere preoccupazioni degli investitori riguardano altro: la capacità creativa di Disney e la qualità dei contenuti.

Negli ultimi anni la strategia è sempre più evidente: prendere i classici d'animazione e produrli nuovamente con attori veri, effetti speciali e animazioni digitali ultra-realistiche - quello che nel settore chiamano "live-action"

Al botteghino ciò sembra funzionare: Il Re Leone ha incassato 1,6 miliardi, Aladdin con Will Smith oltre un miliardo, La Bella e la Bestia con Emma Watson 1,2 miliardi

La logica industriale è chiara: minimizzare il rischio. Non devi convincere nessuno ad andare al cinema - devi solo ricordare alla gente quanto ha amato l'originale da bambino e, magari portare i propri figli. 

Il punto, però, è un altro. Quali personaggi nati dopo il 2020 possono davvero competere, in termini di impatto culturale, con Mickey Mouse, Paperino o Pippo?

Se guardiamo alle produzioni recenti — Strange World, Lightyear, Elemental, Wish, Haunted Mansion, The Marvels — i risultati sono stati spesso altalenanti, quando non apertamente deludenti. I remake funzionano perché fanno leva sulla nostalgia, ma la nostalgia ha un limite. 

Conclusioni

Oltre ai numeri, c’è una questione ancora più profonda: l’identità. Disney, un tempo simbolo di creatività e innovazione, oggi sembra un po’ smarrita.
I film, da soli, non sono mai stati la principale fonte di profitto: la vera forza di Disney è sempre stata costruire una fanbase solida e fedele. Un bambino che ama Frozen non si limita a guardare il film: vuole il pupazzo di Olaf, il costume di Elsa, lo zaino, e insiste per andare a Disneyland. 

Questo è il cuore della integrazione verticale di Disney: l’azienda non si limita a produrre contenuti, ma controlla e coordina tutte le esperienze collegate — merchandising, parchi a tema, spettacoli e licenze — moltiplicando così il valore generato da ogni film.

In altre parole: il vero moltiplicatore di valore per Disney non è il film in sé, ma tutto ciò che riesce a generare intorno a esso.

Ma il vero problema è un altro: non è detto che i bambini di oggi e di domani vivranno la magia Disney come l’hanno vissuta i loro genitori. Lo schermo è sempre presente, e bastano pochi secondi su TikTok, YouTube o altri social per catturare la loro attenzione. In un mondo dove tutto scorre velocemente, conquistare una fanbase richiede emozionare prima che lo sguardo passi al contenuto successivo.

Se l’attaccamento ai personaggi e ai film Disney dovesse calare nelle nuove generazioni, l’effetto a catena sarebbe inevitabile: parchi, merchandising, abbonamenti a Disney+ e tutte le esperienze collegate perderebbero gran parte del loro senso e valore.

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Davide Berti, consulente finanziario

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