La storia Steve Jobs e del suo esilio da Apple

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Immagina di essere cacciato dall’azienda che tu stesso hai creato. È quello che accadde a Steve Jobs nel 1985. In quel momento, Apple era sull’orlo del baratro: prodotti che non convincevano, vendite in calo e un futuro più incerto che mai. 

Ma come può un fondatore essere estromesso dalla sua stessa azienda? E soprattutto, come fece Jobs a tornare, ribaltare il destino della Apple e trasformarla in uno dei più grandi successi della storia della tecnologia?

La storia di Steve Jobs

Steven Paul Jobs nacque il 24 febbraio 1955 a San Francisco. I genitori biologici erano due giovani universitari che non potevano tenerlo, così fu adottato da Paul e Clara Jobs, che lo crebbero nella zona che sarebbe diventata la Silicon Valley.

Fin da giovane si distingueva per una curiosità irrequieta: intelligente, creativo, ma spesso testardo.

Al liceo incontrò Steve Wozniak, più grande di cinque anni e genio della tecnologia. 

Nel 1972 Jobs si iscrisse al Reed College ma abbandonò dopo un semestre, continuando però a seguire alcune lezioni che lo appassionavano. Nel 1974 lavorò brevemente per Atari come progettista di videogiochi, poi partì per l'India in cerca di spiritualità.

Tornato in California, nel 1976 Jobs ebbe un'intuizione: rendere i computer accessibili a tutti

All'epoca i computer erano macchine complesse riservate solamente ai più esperti, ma Jobs immaginava dispositivi semplici che chiunque potesse usare in casa o in ufficio. Convinse l'amico Wozniak, che aveva progettato un circuito rivoluzionario, a fondare con lui Apple Computer il 1° aprile. 

Jobs aveva appena 21 anni, Wozniak 25. Il loro primo ufficio? Il garage della casa dei genitori adottivi di Jobs. 

Per finanziare i primi progetti, Jobs vendette il suo Volkswagen e Wozniak la sua calcolatrice HP.

Il primo prodotto realizzato fu l’Apple I, una scheda elettronica da assemblare, destinata agli appassionati di tecnologia. Nel 1977 arrivò l’Apple II, il primo modello realmente “pronto all’uso”.

Le vendite partirono lente. Il primo anno Apple vendette poche migliaia di pezzi. 

Ma nel 1979 erano già decine di migliaia. Nel 1980 centinaia di migliaia. L'azienda nata in un garage stava diventando un fenomeno nazionale.

A 23 anni il patrimonio di Jobs raggiunse 1 milione di dollari, a 25 anni 250 milioni. 

Nel 1980, quando Apple si quotò in borsa, era tra i più giovani milionari d'America.

Ma dietro il successo crescevano tensioni. Jobs era un visionario ma anche autocratico. Sapeva convincere le persone come pochi altri sapevano fare, ma i suoi metodi duri creavano conflitti sempre più difficili da gestire.

Nel 1983, convinto di aver bisogno di un manager esperto, assunse John Sculley, CEO di PepsiCo.

Ma le differenze emersero presto. Sculley veniva dal mondo dei beni di consumo, fatto di ricerche di mercato e margini prevedibili. Jobs seguiva l'istinto, convinto che i consumatori non sapessero cosa volessero finché non glielo mostravi.

La rottura arrivò quando Lisa e Macintosh non ebbero il successo sperato. I costi erano troppo alti, le vendite deludenti. 

Sculley accusava Jobs di non capire il business, Jobs rispondeva che Sculley non capiva la tecnologia.

Nel maggio 1985 Sculley convinse il consiglio a rimuovere Jobs dalla gestione del Macintosh. Jobs tentò di far licenziare Sculley, ma il consiglio votò contro di lui. Isolato, il 17 settembre 1985 presentò le dimissioni, portando via con sé cinque dirigenti. L'azienda da lui stesso fondata lo aveva scaricato.

Jobs non si arrese. Era deciso di dimostrare al mondo - e soprattutto ad Apple - di cosa fosse veramente capace.

Quello stesso anno, con 7 milioni di dollari del proprio patrimonio, fondò NeXT Inc. L’idea era creare computer rivoluzionari ancora più ambiziosi di quelli Apple. 

I primi mesi furono difficili, con NeXT che faticava a trovare investitori. 

La svolta arrivò nel 1987 quando Ross Perot, miliardario texano, offrì 20 milioni di dollari per il 16% di NeXT. Con quei soldi Jobs assemblò un team di ex-Apple. Nell'ottobre 1988 presentò il NeXT Computer. Il computer era straordinario, con un sistema operativo - NeXTSTEP - più avanzato di qualsiasi altro.

Il problema? Costava 9.999 dollari, una cifra completamente fuori portata per il mercato. Nel 1989 vendettero solo 400 macchine, in cinque anni appena 50.000. Nel 1993 Jobs chiuse la divisione licenziando 280 persone. Aveva capito che non basta il prodotto migliore se costa troppo. 

Eppure, mentre Jobs contava le perdite, quelle macchine stavano silenziosamente facendo la storia. Nel 1990 Tim Berners-Lee, uno scienziato al CERN di Ginevra, aveva scelto proprio un NeXT per sviluppare un progetto rivoluzionario: il World Wide Web. La prima forma di internet come lo conosciamo oggi.

Nel 1986 Jobs acquistò per 10 milioni di dollari, la divisione grafica della LucasFilm, trasformandola in Pixar. I primi progetti dimostrarono che l’animazione digitale era possibile. Jobs credette nel progetto e investì personalmente circa 50 milioni di dollari. Nel 1995 arrivò Toy Story, il primo film completamente digitale. Fu un trionfo. Pixar si quotò in borsa e Jobs fece un'altra fortuna.

Nel 1995 arrivò Toy Story, il primo film completamente digitale. Fu un trionfo. Pixar si quotò in borsa e Jobs fece un'altra fortuna.

Mentre Jobs lavorava ai suoi progetti, Apple attraversava il periodo più buio: prodotti confusi, vendite in calo, CEO che si susseguivano senza invertire la rotta. Nel 1996 era sull’orlo del fallimento. Il nuovo CEO Gil Amelio prese l’unica decisione possibile: comprò NeXT per 427 milioni di dollari.

Ufficialmente Apple voleva il sistema operativo di NeXT, ma in realtà stava riportando a casa Steve Jobs. Jobs tornò come “consulente”, tutti però sapevano che non si sarebbe accontentato di quel ruolo. Nell’estate 1997 convinse il consiglio a licenziare Amelio e si fece nominare CEO. Dopo dodici anni di esilio, era tornato.

Il Jobs del 1997 era diverso da quello del 1985: aveva imparato dai fallimenti, era maturato, ma conservava la stessa fame di successo.

La prima cosa che fece fu drastica: eliminò 70% dei prodotti Apple. Troppi modelli, troppa confusione. Si concentrò su poche macchine fatte bene. Nel 1998 lanciò l'iMac, un computer facile da usare che salvò Apple dal fallimento. 

Era solo l'inizio. Jobs aveva capito che la tecnologia NeXT - quella "fallita" negli anni '90 - era in realtà il futuro. 

Nel 1998 arrivò l'iMac, una macchina che incarnava tutto quello che Jobs aveva imparato: tecnicamente avanzato ma commercialmente accessibile. 

L'iMac salvò letteralmente Apple dalla bancarotta. Ma era solo l'inizio di una serie di lanci che avrebbero ridefinito non uno ma diversi settori industriali. 

NeXTSTEP evolse in Mac OS X, diventando il sistema operativo che ancora oggi fa funzionare i Mac.

Nel 2001 l'iPod rivoluzionò la musica digitale, trasformando Apple da azienda di computer in leader dell'intrattenimento portatile. Nel 2007 l'iPhone ridefinì completamente il concetto di smartphone. Nel 2010 l'iPad creò dal nulla il mercato dei tablet, dimostrando ancora una volta la capacità di Jobs di anticipare bisogni che i consumatori non sapevano nemmeno di avere. 

Ogni prodotto portava le lezioni di quegli anni: l'integrazione perfetta tra hardware e software, l'attenzione al design, e la capacità di anticipare quello che i consumatori volevano prima ancora che lo sapessero.

Nel 2003, all'apogeo della sua seconda carriera in Apple, Jobs scoprì di avere un una forma rara di cancro.

Il 24 agosto 2011, Jobs si dimise da CEO di Apple con una lettera sobria ma profondamente toccante.  

"Ho sempre detto che se fosse mai arrivato il giorno in cui non potessi più adempiere ai miei doveri e alle aspettative come CEO di Apple, sarei stato il primo a farvelo sapere. Sfortunatamente, quel giorno è arrivato."  

Tim Cook divenne il suo successore, ma Jobs continuò a lavorare per Apple fino al giorno prima della sua morte, il 5 ottobre 2011, dimostrando fino all'ultimo che la sua creazione più importante era diventata letteralmente parte di lui.

Lasciava Apple all'apice del successo, trasformata in un colosso da centinaia di miliardi di dollari.

Eppure, ventisette anni prima, nel 1985, quella stessa azienda lo aveva cacciato. Come è potuto succedere che il fondatore di Apple perdesse il controllo della sua creazione?

Perché aveva perso il controllo della sua azienda?

Il punto fondamentale è che possedere un’azienda è una cosa, governarla un’altra. 

Quando una società nasce, il fondatore spesso è anche l’amministratore: colui che si occupa di governare l'azienda, dalla creatività allo sviluppo del prodotto, dalle vendite alle operazioni quotidiane. 

Ma a volte la creatività va più veloce del cash flow e servono soldi da anticipare per fomentare un business in crescita, cedendone una parte di proprietà. 

È così che un fondatore può optare per aprire all'ingresso di nuovi soci: la società vende nuove quote con un aumento di capitale e i soggetti esterni la finanziano. 

Non è richiesta loro competenza, è richiesto denaro.

Proprio per questo motivo molte aziende scelgono di diventare società per azioni. Qui la proprietà è divisa in azioni: ogni azione rappresenta un pezzetto dell’azienda e dà diritto a un voto. Chi possiede la maggioranza può influenzare le decisioni strategiche, ma gli azionisti non gestiscono direttamente l’azienda, la gestione è affidata a chi ne è capace. 

Quando investiamo nelle azioni Coca-Cola o di Nvidia la finalità è remunerare il nostro capitale, non gestire le aziende. Saresti in grado di gestire Nvidia? Nella maggior parte dei casi, no.

E poi sarebbe ancora impossibile con migliaia di persone coinvolte.

Pensa che oggi in circolazione ci sono circa 15 miliardi di azioni Apple, la quasi totalità è detenuta da fondi, investitori istituzionali e società pubbliche (come la Berkshire Hathaway di Warren Buffett). Solamente lo 0,06% è detenuto da chi effettivamente lavora per la Apple.

Grafico 1: Proprietà Apple

 Grafico 1: Proprietà Apple

Fonte: TipRanks

Per questo motivo i soci eleggono un consiglio di amministrazione, che rappresenta gli interessi dei proprietari e nomina i manager per guidare l’azienda giorno per giorno.

Ottenere risorse esterne significa che i soci originari cedono parte della proprietà e dei diritti decisionali. Questo comporta una diluizione delle loro quote e una riduzione del potere di eleggere chi amministra. Steve Jobs aveva perso la fiducia dei suoi stessi azionisti e non poteva esercitare alcuna influenza, in quanto socio di minoranza.

Alla sua fondazione, nel 1976, Steve Jobs possedeva circa il 45% di Apple, la stessa quota del suo socio Steve Wozniak.

Ma quella quota era destinata a scendere appena l'azienda cominciò a crescere davvero.

Per produrre l'Apple II servivano soldi che Jobs e Wozniak non avevano. Macchine da assemblare, componenti, fabbriche - tutto costava. Nel 1977 arrivò Mike Markkula con 250.000 dollari, una cifra essenziale per non fallire. In cambio ottenne un terzo della società. La quota di Jobs scese al 26%.

Ma non bastava. Per costruire una rete di distribuzione nazionale e assumere ingegneri servivano altri capitali. Tra il 1978 e il 1979 entrarono i fondi di venture capital con oltre 1,5 milioni di dollari. Indispensabili, ma Jobs scese sotto il 20%.

Poi nel 1980 arrivò il grande salto: Apple divenne quotata in borsa. L'IPO portò montagne di soldi freschi ma diluì ulteriormente le quote. Jobs arrivò al 13,9%. Infine, per attrarre i migliori talenti, Apple lanciò programmi di stock option che completarono la diluizione. Jobs finì all'11%.

In 5 anni era passato dal controllo assoluto a una minoranza. Ogni investimento era stato necessario per far crescere Apple, ma ognuno aveva eroso il suo potere decisionale.

Era una situazione evitabile? Dal punto di vista operativo no. La società aveva bisogno di quelle risorse e Jobs, concentrato ossessivamente sull'innovazione e sui prodotti rivoluzionari, delegava volentieri gli aspetti finanziari e societari. Ma soprattutto senza quei capitali Apple sarebbe probabilmente rimasta un progetto da garage.

E Jobs non è l'unico fondatore a cui è successo. Jack Dorsey fu rimosso da Twitter nel 2008. Travis Kalanick dovette lasciare Uber nel 2017 sotto la pressione degli investitori. Jerry Yang perse il controllo di Yahoo dopo decisioni strategiche contestate dal board. 

Poteva evitarlo? Forse, con un po' di astuzia, si.

Mark Zuckerberg l'ha capito prima di quotare Facebook. Ha creato una struttura azionaria "dual-class": le sue azioni valgono 10 voti ciascuna, quelle degli investitori normali solo 1. Risultato? Controlla circa il 60% dei voti pur possedendo solo il 14% del capitale. Lo stesso vale per Larry Page e Sergey Brin in Google o Evan Spiegel in Snap.

Il fatto è però che, se Apple se è la società che è oggi lo deve molto a tutti questi passaggi che nel bene o nel male l’hanno portata a diventare la big tech che oggi conosciamo.

L’eredità di Steve Jobs

Sono passati 14 anni dopo la morte di Jobs, Apple è cresciuta ben oltre quanto probabilmente lo stesso Jobs avesse immaginato. 

L'azienda che valeva 350 miliardi di dollari nel 2011 oggi ne vale oltre 3.700 miliardi - dieci volte tanto - ed è leader mondiale degli smartphone con circa il 25% del mercato globale.

Tim Cook ha portato Apple a piena maturità aziendale. Ha trasformato l'azienda in una macchina perfetta per generare profitti. 

E ci è riuscito partendo da un’intuizione di Jobs: il business di Apple non doveva limitarsi a vendere i soli iPhone ma trasformarsi in un universo integrato di prodotti e servizi. iCloud, Apple Music, Apple TV+, Apple Pay valgono il 25% del fatturato totale e rappresentano una fonte di ricavi stabile e ricorrente con margini molto superiori rispetto alla divisione hardware.

Il DNA di Apple però è rimasto intatto. Cook non ha tradito l'eredità di Jobs - l'ha fatta evolvere. E forse questa è la prova più grande: aver costruito qualcosa che potesse sopravvivergli.

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Davide Berti, consulente finanziario

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