RAI: servizio pubblico o spreco di denaro?

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La RAI nasceva come nuovo ente pubblico centralizzato, con l’obiettivo di informare, intrattenere e unire il Paese, accompagnando l’Italia ancora segnata dalla guerra verso la ricostruzione e la rinascita culturale.

Il 26 ottobre 1944, nasceva la RAI – Radio Audizioni Italiane.

Nel 1954 debutta il primo programma televisivo di successo: "Arrivi e partenze" con Mike Bongiorno. Gli abbonati sono solo 24.000. La tv costa troppo: 450.000 lire, quanto un'automobile, l'equivalente di 7.000 euro di oggi. La maggior parte degli italiani guarda la TV al bar o a casa di vicini più fortunati. Sono rituali collettivi, momenti sociali. 

Pian piano la TV però inizia a diffondersi e si innesca una crescita esplosiva: nel 1965 gli abbonamenti superano i 6 milioni.

Come è possibile? Il boom economico abbassa i prezzi dei televisori, le rate agevolate rendono accessibile ciò che prima era un lusso, e soprattutto la TV offre qualcosa che nessun altro mezzo può dare: porta il mondo dentro casa. Sport, spettacolo, informazione. Tutto concentrato in quella scatola magica. 

Nel 1957 arriva anche la pubblicità, nasce Carosello, dove gli inserzionisti possono nominare il prodotto solo all'inizio e alla fine di sketch da 2 minuti. "Dopo Carosello, i bambini vanno a letto" diventa il mantra delle famiglie italiane per vent'anni.

È qui che si definisce il modello di business della televisione italiana: da un lato i ricavi - il canone (gli abbonamenti) e la pubblicità; dall'altro i costi - la produzione di contenuti. Negli anni '50 e '60, però, la pubblicità pesa ancora pochissimo. Quasi tutto viene dal canone.

La televisione non era solo comunicazione: era il mezzo che plasmava opinioni, cultura, lingua. Chi la controllava, controllava il Paese. 

E proprio quel potere d’influenza rendeva inevitabile che la politica cercasse di metterci le mani.

Nel 1975 arriva la Riforma della RAI. Il controllo passa dal Governo al Parlamento, con l'obiettivo dichiarato di garantire il pluralismo. Nella pratica nasce la "lottizzazione": Rai 1 alla Democrazia Cristiana, Rai 2 al Partito Socialista, la neonata Rai 3 (1979) al Partito Comunista. Ogni partito vuole il suo canale, i suoi direttori, i suoi giornalisti.

È in questo contesto che il canone televisivo assume la forma che conosciamo oggi. Nato nel 1938 come tassa sugli apparecchi radio, si trasforma definitivamente in imposta sulla detenzione di televisori

Il canone non è un abbonamento alla RAI. È una tassa obbligatoria che lo Stato impone a chiunque possieda un televisore, e che poi trasferisce alla RAI per finanziare il servizio pubblico. La logica è semplice: se hai un apparecchio in grado di ricevere il segnale RAI, devi contribuire al servizio pubblico. È un modello simile a quello della BBC britannica o dell'ARD tedesca. 

Gli anni '80 complicano tutto però perché arriva la concorrenza. Silvio Berlusconi aveva già aveva già fondato Canale 5 nel 1980, nel 1983 acquisisce Italia 1 dall'editore Edilio Rusconi, e nel 1984 rileva Rete 4 dal gruppo Mondadori. Nasce il duopolio RAI-Mediaset che domina ancora oggi il mercato televisivo italiano. Per la prima volta nella sua storia, la RAI deve competere per gli ascolti. 

Nel 1986 arrivano i dati Auditel e con loro una nuova ossessione: lo share.

Il nodo centrale per la RAI a questo punto è riuscire a bilanciare la propria missione di servizio pubblico, orientata alla formazione e alla cultura, con le logiche di un’impresa commerciale che vive anche di ascolti e di raccolta pubblicitaria.

Soprattutto perché inizia a farsi sentire un problema sempre più grave: il canone evaso. Negli anni '80, il canone garantiva alla RAI circa il 70-75% dei ricavi totali - la pubblicità pesava ancora poco. Ma senza controlli efficaci, l'evasione era diffusa: bastava non dichiarare di possedere un televisore.

La RAI stava andando in rosso e la Commissione parlamentare dovette intervenire autorizzando un aumento del tetto pubblicitario per permettere all'azienda di respirare.

La società si trova quindi costretta a inseguire sempre di più i ricavi pubblicitari per compensare il buco lasciato dagli evasori. Ma questo significa competere ancora più aggressivamente con Mediaset, snaturando progressivamente la missione di servizio pubblico per inseguire gli ascolti.

Tra il 1997 e il 2012 la RAI si espande nel digitale: nascono i primi canali satellitari, poi Rai News 24 (il primo all-news italiano), e con il digitale terrestre arrivano Rai Sport, Rai Movie e altri canali tematici.

Sulla carta è un successo. Nella realtà, un po' meno.

Perché più canali significano più costi: contenuti, personale, infrastrutture tecniche. Il problema è che i ricavi non crescono proporzionalmente. I canali tematici frammentano l'audience, abbassano gli ascolti dei canali principali, rendono meno appetibile la pubblicità. La forbice si allarga.

E qui entra in gioco il contratto di servizio, cioè l'accordo tra RAI e Stato che definisce cosa l'azienda deve fare in cambio del canone: produrre contenuti per minoranze linguistiche, trasmettere programmi culturali; coprire eventi istituzionali senza ritorno pubblicitario.

Sono funzioni che non generano profitto diretto, ma hanno valore sociale. È il cuore del servizio pubblico. Però rappresentano anche un costo significativo che le TV commerciali non devono sostenere. E mentre i costi di produzione crescevano anno dopo anno - per inflazione, per diritti sportivi sempre più cari - il canone restava sostanzialmente fermo per lungo tempo. 

Una possibile soluzione arrivò nel 2016 con una mossa del Governo Renzi decisiva: mettere il canone RAI nella bolletta elettrica.

La logica era semplice: se hai l'elettricità in casa, probabilmente hai un televisore. Il canone viene suddiviso in rate mensili e addebitato automaticamente con la luce. Impossibile evadere senza rischiare il distacco della corrente.

L'effetto fu immediato. L'evasione crollò dal 26% a meno del 5% in un anno. Il gettito balzò da 1,5 miliardi a oltre 1,8 miliardi annui. La RAI poteva contare su entrate più stabili e prevedibili.

Dal punto di vista finanziario fu una manovra che risolve il problema. Ma dal punto di vista politico scatenò numerose polemiche: il sistema funziona per presunzione (si presume che tu abbia un TV se hai la luce), e se non lo possiedi devi autocertificare ogni anno all'Agenzia delle Entrate. Un'inversione dell'onere della prova, che molti considerano ingiusta.

Ma funziona. E quei 1,8 miliardi garantiti sono diventati l'ancora che tiene a galla tutto.

Arriviamo ai giorni nostri. Dopo 81 anni dalla fondazione della Rai come stanno andando le cose?
La RAI è oggi un vero e proprio gruppo industriale articolato in diverse società operative:

  • RAI S.p.A., la casa madre, che produce i contenuti, gestisce i canali televisivi e radiofonici e coordina le sedi regionali;
  • Rai Way, che gestisce le infrastrutture di trasmissione — torri, ripetitori e tecnologie; Questa è quotata in borsa e distribuisce alla casa madre circa 60 milioni di euro di dividendi annuali.
  • Rai Pubblicità
  • Rai Cinema
  • Rai Com.

Nel complesso, il gruppo realizza un fatturato di circa 2,85 miliardi di euro.
Di questi:

  • il 65% (circa 1,85 miliardi) proviene dal canone televisivo,
  • il 27% (circa 760 milioni) dalla pubblicità,
  • e il 8% restante (circa 236 milioni) da altre attività, come la vendita di contenuti e servizi.

Questa composizione evidenzia una forte dipendenza dal canone, una fonte che rappresenta quasi due terzi dei ricavi e che, essendo di natura pubblica, è soggetta al controllo politico.

Sul fronte dei costi, il totale ammonta a 2,2 miliardi di euro. La voce più rilevante è il personale, con 1 miliardo destinati agli stipendi di circa 12.000 dipendenti. Seguono circa 900 milioni per diritti sportivi e produzioni. Le restanti spese riguardano infrastrutture tecniche, energia e manutenzione.

Il risultato? Un margine operativo lordo di 627 milioni, che dopo ammortamenti e svalutazioni (600,5 milioni) si riduce a un risultato operativo di 28,9 milioni - un margine dell'1%. Il bilancio 2024 è stato sostanzialmente chiuso in pareggio.

Se fosse un'azienda privata quotata in borsa, questo dato difficilmente farebbe entusiasmare gli investitori. Negli ultimi anni la RAI ha chiuso i bilanci sempre in pareggio o con lievi perdite, spesso coperte da interventi straordinari o dai ricavi delle controllate. 

Come mai? È un problema del modello di business o di chi la governa?

Per capirlo, facciamo un confronto diretto con chi opera nello stesso mercato. Prendiamo Mediaset: ricavi simili alla RAI - 2,9 miliardi - ma utile netto di 250 milioni. Un margine del 9%

Come è possibile che due aziende con fatturati quasi identici, nello stesso settore, abbiano risultati così diversi? La risposta sta in quello che abbiamo visto prima: gli obblighi di servizio pubblico. Mediaset può concentrarsi solo su ciò che porta profitto. La RAI deve bilanciare profitto e missione sociale. È il prezzo del servizio pubblico, e spiega perché la RAI non sarà probabilmente mai profittevole come un'azienda commerciale pura.

Ancora più sproporzionato è il confronto con i colossi globali dello streaming.

Prendiamo Netflix: nel 2024 ha chiuso con un utile netto di 8,7 miliardi di dollari con un margine netto del 24%. Netflix investe 17 miliardi di dollari all'anno solo in contenuti originali - sei volte l'intero budget RAI. E può permetterselo perché genera profitti enormi, che reinveste.

Se la valutiamo con gli occhi di un investitore, la diagnosi è netta: margine dell'1%, dipendenza oltre il 60% da un'unica fonte controllata dalla politica. Qualsiasi analista finanziario direbbe: troppo rischioso, troppo fragile, troppi vincoli. Da un punto di vista puramente economico, non sarebbe un investimento attraente.

Ma la RAI non è – e probabilmente non sarà mai - un'azienda quotata in borsa. È un servizio pubblico

Se la guardiamo invece da cittadini che pagano 90 euro all'anno di canone, la domanda giusta non è "quanto profitto genera?", ma "è un servizio di qualità?" “è un investimento corretto per il nostro Paese?” 

Da un punto di vista finanziario non è di certo un’azienda trainante della nostra economia. I benefici dovrebbero, almeno in teoria, dipendere dalla funzione culturale e nell'informazione che offre. E su questo aspetto non spetta a me giudicare. 

Per capire se il problema è solo della RAI o è più ampio, vale la pena guardare cosa succede negli altri paesi europei.

Analizzando il quadro europeo emerge che la RAI è tra i broadcaster pubblici con il minore sostegno statale, pur vantando uno degli share più elevati.

Grafico 1: Ricavi complessivi 2023 per tipologia (milioni di Euro)

 Grafico 1: Ricavi complessivi 2023 per tipologia (milioni di Euro)

Fonte: Rai (Elaborazioni su dati EBU-MIS Datasets 2024, Income & Expenditure)

In Francia, France Télévisions dipende quasi interamente dai fondi pubblici (quasi 80%) dopo l’abolizione del canone nel 2022. Nonostante questo sostegno, continua a registrare perdite significative: 80 milioni dal 2017 e un deficit previsto di 40 milioni nel 2025, pur avendo uno share inferiore (29,3%) rispetto al 36,6% della RAI.

Nel Regno Unito il canone della BBC, pari a circa 190 euro — circa tre volte quello italiano — copre il 74,5% dei ricavi, e la divisione commerciale BBC Studios fattura 2 miliardi di sterline con 240 milioni di utile. Nonostante ciò, l’intero gruppo ha chiuso con un deficit di 263 milioni di sterline e uno share (30,9%) inferiore a quello della RAI.

Insomma, la RAI non è messa peggio degli altri. Addirittura, secondo l'European Broadcasting Union, è tra i servizi pubblici più efficienti d'Europa per share ottenuto per euro investito.

Il punto non è quindi se la RAI sia gestita bene o male in senso assoluto - sicuramente ci sono margini per ridurre sprechi e migliorare l'efficienza, ma la sua funzione non è non sarà mai unicamente finanziaria. La domanda di fondo, quindi, è più profonda: ha ancora senso questo modello nell'era dello streaming o diventerà solo un benefit - un investimento in cultura del Paese - coperto con la spesa pubblica? 

Resto a disposizione per qualsiasi dubbio o domanda.

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Davide Berti, consulente finanziario

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