Spotify: perché paghiamo sempre di più

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Fino a non molto tempo fa, se una canzone ti fosse piaciuta davvero, avresti dovuto comprare il CD intero dell'artista. 

Poi Internet ha cambiato tutto. All'inizio degli anni 2000 c'era chi comprava i cd, chi li scaricava illegalmente, chi comprava brani su iTunes a 99 centesimi l'uno, chi sperimentava con i primi servizi di streaming.

In mezzo a questa confusione, stava nascendo però un'idea rivoluzionaria: e se invece di possedere la musica, potessimo semplicemente accedervi quando vogliamo? 

Ed eccoci al 2006. L'industria musicale è in piena crisi - la pirateria sta devastando le vendite e i pochi servizi di streaming esistenti sono esperimenti di nicchia.

È in questo contesto che due giovani imprenditori svedesi, Daniel Ek e Martin Lorentzon, fondano una piccola startup, Spotify.

Il servizio che Spotify offre è rivoluzionario per l'epoca: accesso istantaneo a milioni di brani musicali direttamente dal browser, senza dover comprare copie fisiche o aspettare lunghi download. 

Il modello scelto è il freemium.

Ci sono utenti che gratuitamente accedono a tutto il catalogo ma con alcuni vincoli: spot pubblicitari, salti limitati, qualità audio ridotta e nessun download offline.

Ed utenti premium, che pagano un abbonamento mensile e hanno un'esperienza completa: zero pubblicità, download illimitati, qualità superiore e funzionalità esclusive.

La scommessa era chiara: una percentuale significativa di utenti gratuiti, una volta assaggiata la comodità dello streaming, si sarebbe convertita in abbonati paganti.

Il fattore di rischio stava nel fatto che i ricavi e i costi erano completamente squilibrati. 

Gli utenti gratuiti – la maggioranza – garantivano solo ricavi limitati dalla pubblicità, mentre gli abbonati premium, pur essendo in minoranza, costituivano la vera fonte di entrate grazie ai pagamenti mensili.

Il punto critico era che servire entrambe le tipologie di utenti comportava costi molto simili: Spotify, a prescindere dal tipo di utente, doveva comunque sostenere ingenti spese in royalty per le etichette discografiche, in editori e artisti per ogni brano riprodotto, oltre ai costi operativi legati a server, sviluppo delle app, personale e infrastrutture tecnologiche necessarie a gestire milioni di ascoltatori.

Proprio per questo motivo i primi anni furono economicamente difficili. 

Eppure, Spotify aveva due carte vincenti che nessuno aveva previsto: algoritmi di raccomandazione che imparavano i gusti degli utenti, e un'interfaccia così intuitiva da far sembrare tutto il resto preistoria. Ascoltare musica su Spotify non era solo più conveniente del comprare CD - era più comodo.

La strategia comincia a dare i primi risultati: nel 2009 l’apertura delle registrazioni gratuite nel Regno Unito ottiene un tale successo che, dopo pochi mesi, Spotify è costretta a sospenderle e a tornare al sistema a inviti.

Nel 2011 Spotify compie il grande salto negli Stati Uniti, un mercato che aveva già visto fallire diversi servizi musicali e dominato senza rivali da giganti come iTunes. Un’impresa tutt’altro che semplice.

A giugno Spotify raccoglie 100 milioni di dollari di finanziamenti e offre a ogni nuovo utente americano sei mesi di streaming completamente gratuito. Un investimento colossale tra licenze, infrastrutture e marketing, che avrebbe segnato in modo decisivo il destino dell’azienda.

Il successo fu immediato e segnò l’inizio di una fase di rapida espansione. Dai 20 milioni di utilizzatori registrati nel 2012, Spotify nel giro di due anni, riuscì a triplicare la base utenti, arrivando a 60 milioni nel 2014.

Grafico 1: Numeri utenti Spotify (2012-2023)

 Grafico 1: Numeri utenti Spotify (2012-2023)

Fonte: Music Business Research, Music Business Worldwide

Mentre tutti gli altri servizi ti facevano comprare la musica, Spotify te la prestava. Potevi ascoltare tutto, sempre. Spotify stava cambiando il modo stesso di vivere la musica.

Ma il successo aveva un prezzo: attirò l'attenzione dei giganti del tech. Nel 2014 Amazon Prime Music gratuito per gli abbonati Prime, l’anno seguente Apple presentò Apple Music, integrato con l’iPhone, e Google lanciò YouTube Music, sfruttando il proprio ecosistema.

Nonostante tutto, Spotify teneva botta e gli utenti continuavano ad affluire. La piattaforma piaceva ed effettivamente il servizio era unico. C’era però un problema…

Più Spotify cresceva, più perdeva soldi. Nel 2015 gli iscritti attivi erano arrivati a 89 milioni ma registrava perdite per oltre 230 milioni di euro. Nel 2017, con 159 milioni di abbonati, le perdite superavano i 1.235 milioni. Era una corsa contro il tempo: diventare abbastanza grandi da essere profittevoli prima di rimanere senza soldi.

Nel 2018 arriva la quotazione in borsa. Non con una IPO tradizionale, ma con un "direct listing" - una procedura insolita dove l'azienda non emette nuove azioni né raccoglie capitali freschi. Le azioni già esistenti dei fondatori e investitori storici vengono messe direttamente sul mercato, permettendo a chiunque di comprarle.

Per differenziarsi dai competitor, Spotify si trasforma da servizio musicale a "piattaforma audio completa". Investimenti massicci in podcast esclusivi come Joe Rogan (100 milioni di dollari), acquisizioni di studi di produzione, lancio degli audiolibri. Se non riesci a battere Apple e Amazon sulla musica, offri contenuti che loro non hanno.

Gli utenti crescevano trimestre dopo trimestre, e Spotify consolidava la sua posizione come leader globale dello streaming.

Tuttavia, sul piano finanziario la situazione era più complessa. Nonostante l’espansione e l’aumento degli utenti, l’azienda continuava a finanziare questa crescita bruciando cassa.

Perché succedeva ciò?

Il motivo principale era la struttura dei costi: Spotify operava con margini ridottissimi. Gran parte dei ricavi finiva subito nelle royaltys musicali pagate a etichette, editori e artisti. Ogni nuovo utente significava più ricavi, ma anche più costi.

Nel 2011 i costi operativi assorbivano il 97,7% dei ricavi: in pratica, quasi ogni euro incassato veniva subito speso. Con il tempo la situazione iniziò a migliorare: nel 2015 il rapporto era sceso all’88%, e nel 2020 al 74%. Nonostante i progressi, però, i costi restavano ancora molto alti, continuando a erodere gran parte dei ricavi.

Finché c’è crescita nella base clienti questo modello può funzionare, ma è ovvio che prima o poi anche lo slancio si esaurisce. Tra il 2021 e il 2023, il tasso di crescita degli abbonati paganti era sceso dal 35-40% del 2017-2018 a circa il 15%

Con la crescita che si stava stabilizzando, tagliare i costi non bastava più

Il nodo principale era la struttura della base utenti. Sebbene i ricavi complessivi crescessero, quelli derivanti dagli account gratuiti nel 2023 rappresentavano solo il 13% del totale, mentre gli abbonamenti Premium, pur costituendo una netta minoranza, generavano la maggior parte dei ricavi. 

Un abbonato Premium produceva 49 euro all'anno, contro i soli 4,60 euro di un utente gratuito. Questo squilibrio evidenziava che le leve per aumentare la redditività erano due: convertire più utenti gratuiti in abbonati oppure aumentare i ricavi di chi già pagava.

Grafico 2: Ricavi Spotify (2012-2023)

 Grafico 2: Ricavi Spotify (2012-2023)

Fonte: Music Business Research, Music Business Worldwide

La strategia di Spotify è stata aumentare gradualmente i prezzi degli abbonamenti. Il processo è iniziato nel 2021 con i primi rincari sui piani famiglia, è proseguito nel luglio 2023 con l'aumento del piano base da 9,99€ a 10,99€, e si è completato a settembre 2025 con il nuovo ritocco a 11,99€.

In meno di cinque anni, l'abbonamento base è aumentato del 20%.

La giustificazione ufficiale parlava di "necessità di investire nello sviluppo della piattaforma e nell'arricchimento dei contenuti." 

In realtà, con una struttura di costi rigida, alzare i prezzi resta la leva più diretta per far crescere i ricavi e migliorare gli utili.

Funziona?

Sì, almeno per ora: la base clienti di Spotify resta stabile e il tasso di cancellazione si aggira intorno al 2-3% a livello globale, un valore nettamente inferiore alla media del settore.

Molti si lamentano ma alla fine pochi disdicono davvero l'abbonamento. Spotify ha costruito quello che gli economisti chiamano "pricing power": può aumentare i prezzi senza perdere clienti perché è diventata indispensabile.

Perché?

1. Gli switching cost sono alti: Cambiare piattaforma significa perdere le playlist curate per anni, perdere l'algoritmo che conosce i tuoi gusti, ricominciare da capo.

2. L'effetto "solo un euro" Un euro in più al mese sembra poco, soprattutto spalmato su 30 giorni. Chi mollerebbe Spotify per 3 centesimi al giorno?

3. Le alternative non sono molto più convenienti: Apple, Amazon e YouTube Music hanno prezzi simili e non offrono differenze tali da rendere lo switch davvero vantaggioso.

Fino a dove arriverà Spotify con gli aumenti? La risposta, purtroppo per i nostri portafogli, è: finché funziona. Finché non si scontrerà con l’elasticità della domanda.

In questo momento il modello di business di Spotify rende gli aumenti di prezzo non solo probabili, ma strutturalmente necessari:

  1. I costi crescono automaticamente 
  2. Le royalty aumentano ogni anno 
  3. Gli investitori si aspettano risultati sempre migliori

Ma ora, guardando ai dati più recenti, come stanno andando le cose per Spotify?

Spotify oggi è un gigante con 640 milioni di utenti attivi mensili, di cui 252 milioni abbonati premium. È il leader dello streaming musicale mondiale, con una quota di mercato del 35% circa. 

Grafico 3: Quote mercato streaming in % (2024)

 Grafico 3: Quote mercato streaming in % (2024)

Fonte: Businessofapps, Company data

Nonostante tutte le difficoltà strutturali che abbiamo analizzato il titolo ha registrato una performance straordinaria negli ultimi anni. 

Dal 2023 in particolare, l'azione è letteralmente decollata: dai minimi sotto i 70 dollari è arrivata a superare i 700 dollari nel 2024-2025.

Come mai il mercato ha premiato un'azienda con queste sfide operative? 

Per anni Spotify è stata vista come un'azienda che cresceva rapidamente ma faticava a generare profitti. Soprattutto dal post-Covid, il mercato ha iniziato a vedere segnali concreti di maturazione del business model. 

Nel 2024 Spotify è riuscita a raggiungere un traguardo storico: il primo anno chiuso in utile. Su 15,7 miliardi di ricavi, l’azienda ha registrato 1,14 miliardi di profitto, con un margine lordo del 30% e un margine netto del 7%. Un risultato non affatto scontato, che ha sorpreso il mercato in positivo e ha confermato la capacità di Spotify di monetizzare efficacemente la propria base utenti.

La storia di Spotify mostra quanto sia complesso valutare un’azienda in crescita. Comprendere la struttura del business, le dinamiche della base utenti e le prospettive di monetizzazione è fondamentale per stimare correttamente il profilo rischio-rendimento. È proprio questo tipo di analisi, l’analisi fondamentale, che io e il mio analista di Renegade Insider Finanza svolgiamo ogni giorno, per distinguere opportunità di investimento reali da quelle che possono sembrare promettenti solo in apparenza.

Detto ciò, molto è ancora da dimostratore. Restano interrogativi sulla sostenibilità a lungo termine di Spotify: i margini continueranno a migliorare? i concorrenti riusciranno a erodere quote di mercato? i clienti accetteranno sempre di buon grado questi aumenti? 

E tu che ne pensi? Questa fiducia degli investitori è giustificata o stanno sopravvalutando le reali potenzialità di Spotify?

Resto a disposizione per qualsiasi dubbio o domanda.

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Davide Berti, consulente finanziario

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Mission

In un mondo basato sulle dinamiche economiche, dove troppo spesso le conoscenze finanziarie sono limitate o assenti, verificare la professionalità di un consulente è necessario quanto difficile. Per questo affianco al mio lavoro questo progetto di consapevolizzazione.

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