Cosa ci insegna il fallimento di Alitalia

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Settembre 1946. L'Europa è un cumulo di macerie e l'Italia esce distrutta dalla Seconda guerra mondiale. Per ricostruire il Paese non bastano solo mattoni e cemento...

Settembre 1946. L'Europa è un cumulo di macerie e l'Italia esce distrutta dalla Seconda guerra mondiale. Per ricostruire il Paese non bastano solo mattoni e cemento - serve riallacciare i rapporti con il mondo. Il modo migliore è guardare al futuro: i cieli, dove la tecnologia aeronautica ha fatto progressi straordinari. L'Italia non può restare indietro.

Serve una compagnia di bandiera che porti l'Italia sui cieli internazionali. 

Così nasce Alitalia: 900 milioni di lire di capitale, 60% italiano (IRI), 40% britannico (British European Airways).

Il 5 maggio 1947 un Fiat G.12 decolla da Torino per Catania con 18 passeggeri a bordo. È il primo volo commerciale di Alitalia.

Da quel momento, l'espansione è rapida. Nel giro di pochi mesi arriva il primo volo internazionale verso Oslo, nel 1948 il primo intercontinentale Milano-Buenos Aires. 

Nel 1957 Alitalia si fonde con la LAI (Linee Aeree Italiane), l’altra compagnia aerea nata nello stesso periodo di Alitalia e con cui era in competizione. Nel frattempo gli inglesi della BEA cedono la loro quota all'IRI, rendendo Alitalia completamente italiana.

Nei primi decenni le cose vanno abbastanza bene e l’azienda è profittevole. Negli anni '60-'70 Alitalia diventa la settima compagnia aerea mondiale. Nel 1967 fattura 140 miliardi di lire (circa 1,65 miliardi di euro attuali) con una quota di mercato italiana superiore all'80%

Ma dietro il successo si nasconde un problema strutturale: Alitalia non è un'azienda normale, è uno strumento di politica industriale. Deve assumere nel Mezzogiorno, mantenere rotte in perdita per "interesse nazionale", acquistare aerei italiani anche se meno competitivi. Il modello funziona finché l'Italia cresce e volare è un lusso per pochi.

Nel 1997 l'Unione Europea completa la liberalizzazione del trasporto aereo. Finiscono i monopoli nazionali protetti, inizia la libera concorrenza. Le compagnie low-cost possono volare ovunque nell'UE con tariffe competitive.

Per Alitalia, abituata a cinquant'anni di mercato protetto, è un trauma. Deve competere con aziende snelle ed efficienti come Ryanair ed EasyJet. I primi segnali di crisi sono immediati: nel 1999 la quota di mercato italiana scende sotto al 50%.

Il primo tentativo di invertire la rotta è l’opportunità di fusione con la compagnia di bandiera olandese, KLM, nel 1999. Sulla carta è ideale: gli olandesi dominano il lungo raggio, Alitalia il domestico e il Mediterraneo. L'accordo di fusione prevedeva lo spostamento dell'hub da Roma-Fiumicino a Milano-Malpensa.

Ma l'Italia non è pronta. La politica si divide, i sindacati protestano, la burocrazia rallenta. Il governo Prodi cade, arriva Berlusconi con altre priorità. KLM si ritira, pagando 250 milioni di penale.

Da quel momento inizia l'agonia con la concorrenza che continua ad aumentare la pressione. Le perdite si accumulano: nel 2007 perde un milione al giorno; nel 2006 addirittura due.

Nel frattempo, le low-cost europee passano dal 2% di quota nel 1997 al 35% nel 2007. Alitalia crolla dal 60% del mercato italiano al 33%.

Arriviamo al 2008: Alitalia è tecnicamente fallita, ogni giorno perde 2 milioni di euro e ha debiti per 1,2 miliardi. Va salvata…se non si vuole che scompaia.

Air France-KLM si presenta alla porta con un'offerta: 700 milioni per l'acquisizione e un 1 miliardo per la ricapitalizzazione.

La risposta di Silvio Berlusconi è netta: "Alitalia agli italiani!". Nasce così la Compagnia Aerea Italiana (CAI), una cordata di imprenditori italiani guidata da Roberto Colaninno che arrivano a detenere il 75% della società. Tra i soci figurano i nomi più importanti dell'industria nazionale: Emma Marcegaglia, Emilio Riva, i Benetton. Investimento totale: 1,05 miliardi. Sulla carta, il meglio dell'imprenditoria italiana unito per salvare il simbolo nazionale. Il restante 25% viene acquisito da Air France-KLM.

Grafico 1: Azionariato Alitalia (2008)

 Grafico 1: Azionariato Alitalia (2008)

Il "Progetto Fenice" promette miracoli: separazione tra "bad company" (debiti lasciati allo Stato) e "good company" (parte sana ai privati), focus sui voli nazionali, taglio dei costi del 30%, ritorno agli utili entro tre anni. 

Tutto molto bello sulla carta, peccato che la realtà si rivelerà diversa.

In 5 anni vengono bruciati oltre 1,3 miliardi di euro. 

Il capitale sociale si scioglie come neve al sole: dai 1.050 milioni del 2009 a 455 milioni nel 2011. I "capitani coraggiosi" iniziano a scappare: Emma Marcegaglia esce già nel 2009, altri seguono liquidando le partecipazioni a prezzi sempre più bassi.

Serve un nuovo salvatore. Nel 2014 arriva Etihad Airways dal Medio Oriente con il 49% del capitale per 387 milioni, più 1,76 miliardi di investimenti quinquennali. Nasce Alitalia - Società Aerea Italiana. Gli obiettivi sono di nuovo ambiziosi: utili entro il 2017, fatturato a 3,7 miliardi, flotta completamente rinnovata. 

Anche questa volta, però, la ricetta non funziona e le perdite di accumulano fino a oltre 1,2 miliardi. I problemi sono sempre gli stessi: costi del personale superiori alla media europea, produttività inferiore, flotta obsoleta. 

Nell’aprile 2017 Etihad presenta l'ultimatum: ristrutturazione o chiusura. I lavoratori bocciano il piano. Due settimane dopo, Alitalia dichiara bancarotta per la terza volta.

A maggio Alitalia entra in amministrazione straordinaria. Lo Stato eroga un prestito ponte da 600 milioni, "restituibili entro 6 mesi". Quei sei mesi diventeranno quattro anni e mezzo.

I commissari si susseguono, promettendo sempre di trovare un acquirente mentre gli aiuti si accumulano. La Commissione Europea apre tre procedure di infrazione per aiuti di Stato illegali. I potenziali acquirenti (Lufthansa, EasyJet, Delta) guardano ma non offrono. Chi compra un'azienda che perde 500 milioni l'anno?

Nel Marzo 2020 mentre il Covid ferma il mondo aereo. Il governo Conte coglie l'occasione per un nuovo rilancio: invece di chiudere Alitalia, la trasforma in ITA Airways (Italia Trasporto Aereo), controllata al 100% dal Ministero dell'Economia.

Nell’ottobre 2021: nasce ITA con 700 milioni di capitale, 2.800 dipendenti (prima del commissariamento erano 11.000) e 52 aeromobili (erano 118).

Sarà la volta buona? Sapete già la risposta…seppure i risultati sembrino timidamente migliorare i bilanci continuano ad essere chiusi in perdita. 

I problemi rimangono: stessi dipendenti con stessi contratti, quota di mercato all'8%, costo per dipendente 120.000 euro annui (per Ryanair sono 65.000 euro).

Nel 2023 la tedesca Lufthansa sottoscrivendo un aumento di capitale da 325 milioni acquista il 41% di ITA, il restante 59% rimane nelle mani dello Stato. Con l'ingresso del vettore tedesco nel capitale, è stato nominato un nuovo Consiglio di amministrazione a 5 membri: due scelti da Lufthansa e tre scelti dal MEF. 

Nel 2024 ITA Airways ha registrato i primi segnali di miglioramento sotto la guida tedesca, i ricavi sono cresciuti a 3,1 miliardi di euro e la compagnia ha raggiunto per la prima volta un utile operativo positivo di 3 milioni, ma il bilancio si è comunque chiuso con una perdita netta di 227 milioni a causa degli ingenti oneri finanziari.

I primi mesi del 2025 sembrano più promettenti: ricavi in crescita del 15% e miglioramenti operativi fanno sperare nel raggiungimento del pareggio di bilancio entro fine anno. Ma le sfide rimangono enormi: quota di mercato ancora marginale, costi elevati e la necessità di competere con low-cost sempre più aggressive.

Settantotto anni dopo quel primo volo Torino-Catania, Alitalia non esiste più. Al suo posto c'è ITA Airways, una compagnia dimezzata che prova a sopravvivere grazie al sostegno dello Stato e del gruppo tedesco Lufthansa. 

Chi ci ha rimesso?

Ma in tutta questa storia chi che ha finanziato tutte queste perdite?

La risposta è semplice quanto amara: principalmente i contribuenti italiani. Per oltre cinquant'anni, lo Stato ha fatto da bancomat a Alitalia, versando nelle sue casse 13,25 miliardi di euro tra ricapitalizzazioni, prestiti ponte mai restituiti, aiuti alla ristrutturazione e cassa integrazione straordinaria. Soldi pubblici, soldi di tutti noi.

Ma non è finita qui. Accanto ai fondi pubblici, c'è stata anche una strage finanziaria tra gli investitori privati che hanno creduto nei vari tentativi di rilancio.

Per chi ebbe la sfortuna di investire in Alitalia, la storia è un vero disastro. Dal 1999 al 2008, quando il titolo fu ritirato dalla borsa, gli azionisti persero l'80% del capitale: si partiva da 4,20 euro per azione nel 1999 per arrivare a 0,85 euro nel 2008, con l'unico sprazzo di luce nel 2002 (3,10 euro) durante l'unico anno di utili del nuovo millennio.

Le perdite non si fermarono al crollo in borsa. Gli investitori della CAI (2008-2014) videro letteralmente evaporare 1,05 miliardi. Etihad (2014-2017) bruciò 1,76 miliardi in tre anni. Altri investitori minori persero 600 milioni.

Tra i nomi illustri che persero il grosso dell’investimento abbiamo la famiglia Benetton, Corrado Passera di Intesa Sanpaolo, le famiglie Angelucci e Pirelli. Tutti videro azzerarsi gli investimenti in nome del cosiddetto "patriottismo economico".

Il fallimento di una strategia

Ma mentre Alitalia bruciava questi miliardi pubblici collezionando fallimenti, il settore aereo andava altrettanto male? 

La risposta è no. Le altre compagnie di bandiera europee non solo sono sopravvissute alla liberalizzazione, ma sono diventate più forti e profittevoli.

Lufthansa oggi vale 9,6 miliardi in borsa e nel 2024 ha fatturato 38 miliardi con 1,5 miliardi di utili. Quando è arrivata la concorrenza delle low-cost, ha acquisito Swiss, Austrian Airlines e Brussels Airlines, creando il più grande network europeo. 

Air France-KLM ha seguito la stessa strategia: nel 2004 si è fusa con KLM - gli stessi olandesi che l'Italia aveva rifiutato nel 1999 - diventando uno dei gruppi leader mondiali. 

British Airways ha fatto ancora meglio: si è fusa con Iberia creando IAG, che oggi vale 17 miliardi di sterline. Persino SAS, la compagnia scandinava che ha attraversato crisi profonde, sembra che si sia riuscita a ristruttura con successo.

Dov’è il problema allora?

La differenza fondamentale sta nella governance. Il management di queste compagnie è stato in grado di adattarsi ai cambiamenti del mercato perché si tratta di società quotate in borsa con azionariati diffusi e dirigenti che rispondono ai mercati finanziari, non alla politica. Devono produrre utili per sopravvivere e i loro CEO vengono licenziati se non raggiungono gli obiettivi. 

Prendiamo Lufthansa Group: quotata alla Borsa di Francoforte, è completamente in mano ai privati. Fondi pensione tedeschi, investitori istituzionali internazionali e piccoli risparmiatori ne detengono le azioni, mentre lo Stato tedesco non ha alcun controllo operativo. Stesso discorso per IAG a Londra, dove Qatar Airways è il principale azionista con il 25%, ma il resto è distribuito tra fondi pensione e investitori istituzionali europei.

Air France-KLM presenta un caso interessante: nonostante il governo francese detenga il 28% delle azioni, non interferisce nelle decisioni gestionali quotidiane. Il resto del capitale è nelle mani di fondi pensione olandesi, della cinese China Eastern Airlines e di investitori privati.

Mentre Alitalia bruciava soldi gli azionisti di Lufthansa, Air France-KLM e IAG hanno visto crescere il valore delle azioni e ricevuto dividendi negli anni positivi. Chi ha investito in Alitalia ha perso tutto: dall'80% del valore tra 1999 e 2008, ai capitali azzerati di CAI ed Etihad.

Il risultato finale è chiaro: oggi ITA Airways controlla appena l'8% del mercato che Alitalia dominava con l'80%. Il resto è andato a compagnie straniere più efficienti. Il settore aereo non aveva problemi, il problema era Alitalia.

Da questa storia possiamo capire che, quando investi in una società, è fondamentale comprendere chi ne detiene il controllo e quali dinamiche di governance e strategia ne influenzano le decisioni. La struttura proprietaria può fare la differenza tra successo e fallimento, anche per aziende che operano nello stesso settore. 

Prima di effettuare qualsiasi investimento, è sempre necessario valutare i competitor e analizzare il mercato in cui si opera. Nel caso di Alitalia, uno studio approfondito del settore aereo negli anni ’90 avrebbe sicuramente evidenziato alcuni campanelli d’allarme: mentre Lufthansa cresceva attraverso acquisizioni strategiche e Air France si preparava metodicamente alla liberalizzazione, la compagnia italiana restava ferma.

Un altro principio fondamentale che la vicenda di Alitalia insegna è l’importanza della diversificazione. Concentrarsi esclusivamente su una singola società significa esporsi completamente ai rischi specifici di quella realtà, come cambiamenti normativi, crisi settoriali o errori manageriali.

Tuttavia, anche di fronte a segnali chiari e rischi evidenti, spesso si tende a ignorarli o sottovalutarli. Nel caso di Alitalia, questa dinamica è stata amplificata da due meccanismi psicologici ben noti in economia comportamentale.

Il primo è la sunk cost fallacy, ovvero l’errore di continuare a investire in un progetto fallimentare solo perché già si sono spesi molti soldi. Il ragionamento tipico è: “Abbiamo già speso miliardi, non possiamo mollare ora.” Questo ha influenzato decisioni che si sono protratte per decenni.

Il secondo è l’home bias, la tendenza a preferire investimenti nazionali più per motivi emotivi e patriottici che per ragioni economiche. Quando il denaro si mescola con il senso di appartenenza nazionale, la razionalità spesso lascia il passo all’orgoglio.

Lo Stato italiano e gli investitori privati sono rimasti intrappolati in entrambe queste dinamiche, continuando a finanziare una situazione ormai compromessa più per prestigio che per logica economica. Il risultato è stato un ingente spreco di risorse e una lezione fondamentale per ogni investitore: quando i numeri mostrano che un progetto non funziona, è meglio avere il coraggio di fermarsi piuttosto che perseverare per orgoglio e perdere ancora di più.

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Davide Berti, consulente finanziario

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