Louvre: che impatto avrà il furto?

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Domenica 19 ottobre 2025, ore 9:30 del mattino. Sul lungosenna, davanti al Louvre, si ferma un camion con montacarichi. Due uomini in gilet da lavoro - uno giallo, uno arancione - posizionano dei coni segnaletici come fossero operai qualunque. Sollevano la piattaforma fino al primo piano del museo. Con delle smerigliatrici tagliano il vetro di una finestra della Galleria d'Apollo ed entrano.

Sette minuti dopo escono con otto gioielli storici: diademi, collane di smeraldi e zaffiri, spille imperiali appartenuti a Napoleone Bonaparte, all'imperatrice Marie-Louise, alla regina Ortensia e all'imperatrice Eugenia. Salgono su due scooter e spariscono verso l'autostrada A6.

Solo la corona dell'imperatrice Eugenia - incastonata con 1.354 diamanti e 56 smeraldi - viene ritrovata danneggiata poco distante, probabilmente persa durante la fuga. Gli altri sette pezzi sono scomparsi.

Come è possibile? Con il patrimonio che ha, il Louvre, non poteva permettersi più sicurezza?

Andiamo a vedere i bilanci!

I numeri del Louvre

Nel 2024 il Louvre ha registrato ricavi totali per 301,9 milioni di euro (Fonte: Rapport de gestion sur les comptes consolidés annuels 2024). Tutti derivanti dai biglietti degli ingressi? Assolutamente no…

Per capire come funziona davvero il business del museo, vediamo da dove arrivano questi soldi.

È vero, la fonte principale sono i biglietti d'ingresso: 126 milioni di euro, oltre il 40% dei ricavi totali. Il biglietto standard costa 22 euro e con 8,7 milioni di visitatori all'anno la biglietteria è ovviamente il core business del museo.

Ma subito dopo viene la sovvenzione dello Stato francese: 93 milioni, circa il 30% dei ricavi. È il finanziamento pubblico che permette al Louvre di svolgere la sua missione di servizio pubblico, coprendo costi che la sola biglietteria non potrebbe sostenere.

C'è poi una terza fonte che pochi conoscono: la licenza del marchio Louvre Abu Dhabi, che vale 18 milioni all'anno - il 6% dei ricavi. Nel 2007 la Francia ha firmato un accordo con gli Emirati vendendo il diritto di usare il nome "Louvre" per 30 anni. L'operazione complessiva vale circa mezzo miliardo di euro

Il museo, inaugurato nel 2017, espone a rotazione opere provenienti dai musei francesi, da Leonardo a Manet, da Picasso a Mondrian.

Il resto arriva da sponsorizzazioni, concessioni per negozi e ristoranti interni, affitti di spazi per eventi privati. E a tal proposito il Louvre sa essere creativo: pensate che nel 2020, in piena pandemia con il turismo fermo, ha messo all'asta esperienze uniche: tra queste l’occasione di visitare la Gioconda da soli, senza folla. Ed un visitatore anonimo se la aggiudicò, per 80.000 euro. Un esempio di come il museo cerchi continuamente nuove strade per generare entrate.

Sul fronte dei costi parliamo di 267 milioni di euro. La voce più pesante è il personale: 130 milioni per circa 2.031 dipendenti, di cui 1.285 addetti alla sorveglianza (non che mancassero quindi…). Poi ci sono 109 milioni tra manutenzione, energia e servizi.

Facciamo il conto: 302 milioni di ricavi meno 267 milioni di costi. Il margine operativo è di circa 35 milioni, un 11,6% sul fatturato. 

C’è anche un dettaglio interessante sul fronte finanziario. Il Louvre non si limita a incassare i soldi da Abu Dhabi e spenderli: una parte viene accantonata in un Fondo di Dotazione, creato nel 2009, che investe sui mercati finanziari. 

L'idea è quella di creare una riserva che generi rendimenti nel lungo periodo e che sostenga le missioni di interesse pubblico del museo - acquisizioni, restauri, mostre, educazione. Un po' come fanno le grandi università americane con i loro endowment fund.

Nel 2024 questo fondo ha prodotto un risultato finanziario di circa 30 milioni di euro grazie agli investimenti in azioni, obbligazioni e altri strumenti finanziari. Aggiungendo questo risultato al margine operativo del museo, l'utile consolidato del gruppo Louvre arriva a 64 milioni di euro

Numeri positivi, senza dubbio. Ma ora mettiamoli in prospettiva: si può stimare quanto vale il patrimonio del Louvre?

Il Louvre conserva più di 500.000 opere, di cui circa 35.000 in esposizione al pubblico, tra queste ci sono alcuni dei capolavori più celebri dell'umanità. 

Stimare il valore di questa collezione è impossibile perché molte opere non hanno un prezzo di mercato - non sono in vendita e non lo saranno probabilmente mai. Tuttavia, possiamo ragionare per confronti.

Nel 2017 un quadro attribuito a Leonardo da Vinci - il Salvator Mundi - è stato venduto da Christie's, una delle case d'asta più antiche e prestigiose al mondo, per 450 milioni di dollari al principe ereditario dell'Arabia Saudita. Il Louvre ha cinque Leonardo indiscussi. Alcuni esperti stimano che la sola Gioconda potrebbe valere tra 1 e 2 miliardi. Per dare un'idea, nel 1962 quando il dipinto fu prestato agli Stati Uniti, venne valutato per l'assicurazione a 100 milioni di dollari - equivalenti a quasi 1 miliardo di dollari di oggi. Se dovessimo dare un valore all'intera collezione parleremmo di decine, forse addirittura centinaia di miliardi di euro.

Ecco dove emerge la contraddizione apparente: un patrimonio stimabile in decine di miliardi che genera un margine operativo di 35 milioni. In percentuale parliamo di una redditività dello 0,1-0,2% sul valore degli asset.

Ma se ci pensiamo, in questo caso, ha senso. Il valore è "inestimabile" non solo perché è impossibile dare un prezzo a certi capolavori, ma perché il valore teorico di un'opera d'arte trascende le logiche economiche. Tocca il valore storico, artistico, culturale. Non puoi applicare un modello finanziario come il Discounted Cash Flow per la Gioconda come faresti per valutare un'azienda. Il mercato dell'arte ha logiche completamente diverse dai mercati finanziari.

Se un magnate domani tirasse fuori 1 miliardo per la Gioconda, remunerare adeguatamente quel capitale con, ad esempio, biglietti d'ingresso sarebbe un’impresa ardua. Servirebbero milioni di visitatori paganti ogni anno. Le opere d'arte sono uniche e non generano flussi di cassa proporzionali al loro valore teorico.

Ma qui c'è il punto centrale del discorso: il Louvre non è un'azienda che deve massimizzare i profitti. Genera valore in modi che non compaiono nel suo conto economico.

Gli economisti chiamano questo fenomeno "esternalità positive". Cosa significa? Sono benefici che un'attività produce per la società ma che non si riflettono nei ricavi di chi la svolge. Un esempio: se apri una panetteria in un quartiere, oltre ai tuoi guadagni diretti, crei valore per i vicini che non devono più andare lontano. Quel valore esiste, è reale, ma non finisce nel tuo bilancio.

Per il Louvre funziona allo stesso modo, solo su scala più grande. 

Effetti invisibili

Uno studio del 2009 (Xavier Greffe, 2011) condotto da un professore della Sorbonne di Parigi, ha cercato di quantificare questi effetti invisibili analizzando i dati del 2006. Nello studio non si sono analizzati solo i ricavi diretti del museo, ma tutti i flussi economici generati dalla sua esistenza. Il risultato? Per ogni euro speso dal Louvre, l'economia francese ne genera tra 4 e 6,5. Parliamo di un impatto economico totale tra 936 milioni e 1,16 miliardi di euro all'anno.

Come funziona? I milioni di turisti stranieri che visitano il Louvre non pagano solo il biglietto. Prenotano hotel, mangiano nei ristoranti, prendono taxi, comprano souvenir. E quei soldi non si fermano lì: l'hotel paga i fornitori, il ristorante compra dai produttori locali, il tassista fa benzina. Si crea quello che gli economisti chiamano "effetto moltiplicatore" - ogni euro speso ne genera altri nell'economia.

Il risultato? Il Louvre riceve 110 milioni di sovvenzione statale ma genera per lo Stato francese tra 119 e 203 milioni di entrate fiscali. Crea tra 10.000 e 21.000 posti di lavoro che esistono solo perché il museo esiste. Questi sono i benefici che non compaiono nel bilancio del Louvre ma che hanno valore concreto per il Paese.

Benefici che si basano sul prestigio della collezione, sul suo valore artistico e culturale. Proprio per questo il museo non si comporta come un’azienda ordinaria: raramente vende le proprie opere e, quando possibile, continua a investire nella collezione, anche se dal punto di vista economico può risultare inefficiente.

Ne sono un esempio le acquisizioni recenti: nel 2023 il medievale Christ Mocked di Cimabue per 24 milioni di euro e, nel 2024, il dipinto Le Panier de fraises des bois di Chardin per 24,3 milioni di euro, acquistato grazie a donazioni private.

Ciò espone però il museo a un problema concreto: l'illiquidità. Mantenere un patrimonio così vasto senza poterne mai liquidare una parte lega le mani all'operatività del museo. Quando le spese diventano davvero ingenti, ad esempio per restauri, ristrutturazioni ma anche in caso di opportunità di acquisto di opere, il museo deve fare affidamento sul sostegno dello Stato francese.

Per fare un parallelismo con i mercati finanziari: è un po' come chi possiede un portafoglio formato quasi esclusivamente da immobili che non vuole vendere. Se c'è un imprevisto e servono subito soldi, è dura. E sicuramente non c'è lo Stato ad aiutarlo. Un portafoglio efficiente va ribilanciato. Probabilmente, se il Louvre perseguisse l'efficienza finanziaria, dovrebbe ragionare in questi termini. Ma non può - e forse non deve - perché la sua missione non è quella.

Sul non vendere, a dire il vero, nel 2014 qualcuno ha proposto l'impensabile. Un articolo di France 24 ha suggerito di vendere la Gioconda per aiutare a ridurre il debito nazionale francese. Una proposta che ha ovviamente scatenato polemiche immediate: la legge francese sul patrimonio culturale vieta espressamente la vendita di opere appartenenti a collezioni pubbliche, che sono considerate proprietà inalienabile dello Stato.

Ed è proprio su questi benefici - reputazione, prestigio, valore culturale - che il furto del 19 ottobre ha inflitto il colpo più duro. Gli otto gioielli rubati rappresentano una frazione minima del patrimonio del Louvre. Dal punto di vista finanziario il danno è probabilmente marginale, forse anche coperto da assicurazione. Ma il vero danno non è economico. È storico-culturale e soprattutto di reputazione. Come può il museo più visitato al mondo essere violato in pieno giorno da quattro persone con un montacarichi?

Conclusioni

Se vogliamo fare una riflessione più generale guardando a questa vicenda, emerge un concetto importante che vale tanto per il Louvre quanto per chi detiene grossi patrimoni sui mercati finanziari: il valore assoluto del rischio.

Quando si possiedono cifre ingenti si tende a commettere piccoli errori. A volte per eccessiva superficialità, altre volte per semplice sottovalutazione. Errori che in valore relativo non sembrano avere un grosso impatto - proprio come il furto dei gioielli che, calcolato sull'intero patrimonio del Louvre, rappresenta una frazione minima. Ma in valore assoluto parliamo di milioni di euro persi in una mattinata.

Sui mercati finanziari funziona allo stesso modo. Piccoli errori su un grande portafoglio possono fare danni significativi. Una mancata diversificazione, una concentrazione eccessiva, il sottovalutare la volatilità. Anche se in percentuale sono piccoli, è sciocco assumerseli quando sono evitabili. Perché alla fine non si tratta di percentuali astratte, ma di soldi che spariscono quando si poteva evitarlo - che si tratti di gioielli rubati o di capitale che si erode sui mercati finanziari.

Il Louvre ha inseguito per secoli la bellezza. Ma anche la bellezza, se non è protetta adeguatamente, diventa fragile. Lo stesso vale per i patrimoni: chi accumula senza gestire rischia di vedere il proprio valore dissolversi — proprio come i gioielli di Napoleone.

Fonti

Xavier Greffe. The Economic Impact of The Louvre. Journal of Arts Management, Law, and Society, 2011, 41 (2), pp.121-137.

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Davide Berti, consulente finanziario

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