Guerra USA-Iran: Impatto Economico e Scenari di Mercato

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Il 13 giugno, Israele ha lanciato attacchi coordinati contro l'Iran, colpendo infrastrutture nucleari, comandanti militari di alto livello e scienziati nucleari. L'Iran ha risposto immediatamente con missili balistici e droni contro territorio israeliano, causando vittime da entrambe le parti e innescando un ciclo di escalation. 

Quello che è accaduto

Le esplosioni hanno interessato aree vicino a Teheran, Esfahan e Qom, generando blackout, evacuazioni e una risposta militare quasi immediata da parte dell’Iran.

Teheran ha lanciato una controffensiva con missili balistici e droni kamikaze diretti verso il territorio israeliano. Alcuni sono stati intercettati, altri hanno colpito infrastrutture civili e militari, provocando decine di vittime e danni strutturali.

Il vero punto di svolta è arrivato sabato sera, quando il presidente degli Stati Uniti Donal Trump ha annunciato il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nel conflitto. L'operazione americana, descritta da Trump come un "successo militare spettacolare", ha colpito tre siti nucleari strategici iraniani. L’operazione americana, condotta con missili cruise lanciati da sottomarini nel Golfo Persico e droni ad alta precisione, ha colpito tre siti di importanza strategica per il programma nucleare iraniano:

  • Natanz, il più noto impianto di arricchimento dell’uranio, già danneggiato in passato da attacchi informatici.
  • Fordow, un sito costruito in profondità dentro una montagna, reso famoso perché protetto da bunker ritenuti impenetrabili.
  • Isfahan, sede di uno dei più grandi impianti di conversione dell’uranio, passaggio chiave per trasformare il materiale grezzo in gas utilizzabile per l’arricchimento.

Le autorità iraniane hanno poi cercato di ridimensionare l’impatto, sostenendo che buona parte del materiale sensibile era già stato spostato nei giorni precedenti, forse in previsione di un attacco. 

L’attacco faceva parte della strategia di Trump per negoziare un accordo sul nucleare con l’Iran da una posizione di forza. Con questo attacco Trump mirava ad indebolire il regime iraniano guidato da Ali Khamenei, spingendolo ad abbandonare il programma nucleare o quantomeno dover fare delle concessioni significative. 

L’Iran ha risposto nella serata di ieri con un attacco ad una base USA in medio-oriente, per poi arrivare un annuncio nella giornata di lunedì: forse si è trovato un accordo.
Non sappiamo quali saranno le evoluzioni future di questo conflitto, ma possiamo intanto rispondere ad una domanda.

Come si è arrivati a questa situazione? 

La situazione attuale è il risultato di una serie di fattori ed interessi contrapposti.

Il primo interesse lo avrete già intuito ed è il controllo della tecnologia nucleare.

L’Iran da anni porta avanti un programma ufficialmente civile, ma che desta forti sospetti di possibili applicazioni militari.
Le centrali colpite – Natanz, Fordow e Isfahan – sono il cuore del sistema di arricchimento dell’uranio.
Un stato come l’ Iran dotato di arma atomica cambierebbe radicalmente gli equilibri della regione, mettendo in discussione non solo la sicurezza di Israele, ma anche la credibilità dell’intero sistema di non proliferazione.
Ed è qui che sorge spontaneo una parentesi con una vicenda simile, quella dell’Iraq nel 2003, di cui magari avrete letto qualche commento. 

In quel caso, gli Stati Uniti guidarono un’invasione militare su larga scala con la giustificazione ufficiale che Saddam Hussein stesse sviluppando armi di distruzione di massa, incluse armi nucleari.

La narrativa dominante, sostenuta da diversi governi occidentali, era che l’Iraq rappresentasse una minaccia imminente per la sicurezza globale.

In realtà, dopo la caduta del regime, si scoprì che quelle armi non esistevano: il programma era stato smantellato anni prima, e le prove erano, nella migliore delle ipotesi, deboli o manipolate.

Ma anche se la minaccia nucleare si rivelò infondata, l’intervento modificò drasticamente gli equilibri del Medio Oriente, aprendo un lungo periodo di instabilità e rafforzando indirettamente l’influenza iraniana nella regione.
In entrambi i casi, il vero nodo è lo stesso: chi possiede il nucleare, ha potere contrattuale, influenza e capacità di deterrenza.

A questo si lega il secondo punto: la difesa degli alleati storici, in particolare Israele. Gli Stati Uniti e Israele sono legati da un’alleanza profonda, basata su storia, tecnologia, cooperazione militare e interessi condivisi.
Proteggere Israele non è solo una questione simbolica o ideologica: significa anche tutelare una base avanzata americana nel cuore del Medio Oriente, e garantire un punto di stabilità in una regione perennemente instabile.

Terzo punto: l’influenza politica.
L’Iran è uno degli attori principali dell’asse anti-occidentale nella regione, insieme a Russia, Siria e – in parte – Cina.
Limitare il suo potere significa per gli Stati Uniti contenere la penetrazione cinese nella Belt & Road Initiative, evitare che Mosca guadagni nuovi alleati regionali e impedire la formazione di un blocco economico e strategico alternativo a quello occidentale.

Infine, ma non per importanza, c’è il tema energetico.
Il Medio Oriente è la più grande riserva di petrolio e gas al mondo, e l’Iran – con i suoi 1,6 milioni di barili esportati al giorno – ha un ruolo chiave.
Lo Stretto di Hormuz, da cui passa un terzo del traffico petrolifero mondiale, è una delle leve più potenti che Teheran potrebbe usare come minaccia globale.
Per questo motivo, ogni escalation in Iran si riflette immediatamente sui prezzi del petrolio, sull’inflazione globale e – in ultima analisi – sulla stabilità economica di tutti noi.

L’impatto economico di un conflitto simile 

I primi segnali di questa escalation sono sicuramente quelli che abbiamo potuto riscontrare sui mercati delle materie prime, dove l'impatto è stato immediato e significativo. Il petrolio WTI è balzato da 66,5 a 75 dollari al barile, un aumento di oltre il 12% che ha portato i prezzi ai massimi da gennaio. Parallelamente, il Brent è salito da 66 a 78 dollari, registrando un rialzo ancora più marcato di oltre il 18% dall'inizio delle tensioni. Appena dati segnali di tregua, il prezzo è tornato giù: il WTI è sceso sotto i 67 dollari mentre il Brent sotto quota 70 dollari al barile.

Grafico 1: Prezzo Brent e WTI

  Grafico 1: Prezzo Brent e WTI

Fonte: tradingeconomics

Questo movimento dei prezzi energetici riflette le immediate preoccupazioni del mercato riguardo alle forniture globali di petrolio e alla stabilità geopolitica della regione.
Ma perché un aumento del prezzo del petrolio avrebbe preoccupato così tanto?
La risposta sta nel fatto che il petrolio è letteralmente alla base di ogni economia moderna. Non è solo una materia prima tra le tante, ma il motore invisibile che alimenta oltre il 30% del consumo energetico globale e praticamente ogni aspetto della nostra vita quotidiana.

Per ora, il petrolio rimane insostituibile in settori chiave: alimenta la stragrande maggioranza dei trasporti - auto, camion, navi, aerei – e rappresenta la spina dorsale del commercio globale

Ma la sua importanza va ben oltre l'energia: è la materia prima fondamentale per l'industria petrolchimica, che produce plastica, fertilizzanti, tessuti sintetici, farmaci, detergenti, lubrificanti e asfalto.

Quando compriamo generi alimentari, vestiti, elettronica o medicinali, stiamo pagando anche una quota del costo del petrolio necessario per produrre e trasportare quei prodotti. Ecco perché il petrolio rappresenta circa il 3% del PIL globale: non per il suo valore intrinseco, ma perché è il collegamento essenziale che tiene insieme l'intera catena produttiva mondiale.

La realtà è che, nonostante i progressi nelle energie rinnovabili, al momento non esistono ancora sostituti completamente efficaci per il petrolio nell'aviazione, nel trasporto marittimo e nella petrolchimica. Le rinnovabili stanno crescendo rapidamente, ma le batterie e l'idrogeno verde, pur progredendo, non sono ancora competitivi su larga scala per sostituire completamente il petrolio. Questo significa che, almeno nel breve-medio termine, quando il prezzo del petrolio aumenta, l'effetto si propaga attraverso l'economia toccando ogni settore e ogni consumatore senza possibilità di fuga immediata.

Ecco perché gli economisti parlano di "effetto moltiplicatore": quando i costi energetici salgono, le aziende si trovano di fronte a una scelta apparentemente semplice ma dalle conseguenze complesse:

1. Possono assorbire questi aumenti riducendo i propri margini di profitto
2. Trasferirli sui prezzi finali. 

Nel breve termine, molte aziende cercano di assorbire parte dell'aumento, ma quando il rialzo del petrolio è significativo e prolungato - come potrebbe essere in questo caso - quasi tutte finiscono per aumentare i prezzi.

Questo meccanismo crea quello che gli economisti chiamano un "aumento generalizzato dei prezzi". Un petrolio stabilmente sopra i 100 dollari al barile non significa solo benzina più cara alla pompa, ma anche costi di trasporto più alti per i supermercati, che si traducono in cibo più caro; costi di produzione più elevati per le industrie chimiche e farmaceutiche, che portano a medicinali e prodotti per la casa più costosi; e aumenti nei costi di riscaldamento ed elettricità per famiglie e aziende.

Il risultato? L'inflazione può rapidamente salire verso il 4-5% in Europa e negli Stati Uniti, livelli che sembravano essere finalmente contrastati e che invece tornerebbero a rappresentare una questione insidiosa per molti Paesi.

In particolare, questa dinamica potrebbe diventare particolarmente problematica per le banche centrali. Un petrolio stabilmente sopra i 100 dollari al barile potrebbe spingere l'inflazione verso il 4-5%, mettendo Federal Reserve e Banca Centrale Europea in una posizione difficile.

Invece di tagliare i tassi per sostenere la crescita economica, potrebbero dover mantenerli alti per controllare l'inflazione. Quando le banche centrali alzano i tassi, l'economia tende a rallentare: prestiti più costosi per le aziende, mutui più cari per le famiglie, meno investimenti e consumi.

È importante sottolineare che nulla di tutto ciò è accaduto, perché sembra che il coinvolgimento degli USA sia cessato. 

Tuttavia, è proprio questo potenziale scenario che spiega perché gli analisti e i mercati stanno monitorando con tanta attenzione l'evolversi della situazione in Medio Oriente. La preoccupazione non riguarda quello che sta succedendo oggi, ma quello che potrebbe succedere se la crisi dovesse intensificarsi e cambiare rotta ulteriormente. 

Come si comporterebbero i mercati in caso di conflitto?

Non dobbiamo dimenticare che shock energetici di questa portata hanno già scosso l'economia globale in passato. Negli anni Settanta, due crisi petrolifere - nel 1973 durante la guerra del Kippur e nel 1979 con la rivoluzione iraniana - causate da conflitti geopolitici nel Medio Oriente, portarono l'inflazione a livelli elevati negli Stati Uniti e in Europa, raggiungendo il 12-15%.

L'aumento del prezzo del petrolio innescò quella che gli economisti chiamano "spirale inflazionistica": i prezzi dell'energia aumentarono significativamente, le aziende trasferirono questi costi sui prodotti finali, i lavoratori chiesero aumenti salariali per compensare il costo della vita più alto, e questi aumenti spinsero ulteriormente i prezzi verso l'alto.

I mercati finanziari risentirono dell'incertezza: tra gennaio 1973 e dicembre 1974, il Dow Jones scese del 45%, mentre nel Regno Unito l'indice FT 30 perse il 73% del suo valore. La combinazione di inflazione alta e crescita economica lenta creò quello che gli economisti chiamano "stagflazione".

C’è oggi una differenza con la situazione del l970. 

La differenza importante rispetto ad oggi è che negli anni Settanta le banche centrali erano meno indipendenti e adottarono politiche monetarie accomodanti, mantenendo i tassi bassi per sostenere l'economia. Questo, però, non aiutò a controllare l'inflazione. Oggi le banche centrali hanno maggiore autonomia e strumenti più raffinati per gestire situazioni simili, potendo intervenire più rapidamente quando necessario.

Se vuoi approfondire cosa successe negli anni Settanta e perché quella crisi potrebbe o non potrebbe ripetersi, ti rimando all’articolo dedicato: Cosa successe all'inflazione negli anni Settanta e perché la storia potrebbe ripetersi? 

Guardando invece ai conflitti più recenti, il pattern è più rassicurante. Durante l'invasione dell'Iraq nel 2003, l'S&P 500 perse il 9% nella settimana precedente il conflitto, ma dopo due mesi era in positivo del 5%

Nel 2011, durante la guerra civile libica che rimosse 1,5 milioni di barili al giorno dal mercato, i mercati recuperarono rapidamente nonostante l'impennata del petrolio. Nel 2019, quando ci furono tensioni dirette tra USA e Iran per l'uccisione del generale Soleimani, i mercati si ripresero nel giro di settimane. 

Anche l'invasione russa dell'Ucraina nel 2022 seguì questo schema: panico iniziale con cali del 7%, poi recupero completo in un mese.

Ciò che preoccuperebbe maggiormente i mercati è uno scenario specifico: l'Iran prima dell’accordo ha minacciato di chiudere lo Stretto di Hormuz. Questo passaggio marino, largo appena 33 chilometri nel punto più stretto, è una delle arterie energetiche più importanti del pianeta: ogni giorno vi transitano circa 21 milioni di barili di petrolio - il 33% del traffico marittimo petrolifero mondiale.

Se l'Iran dovesse interferire significativamente con questo passaggio, le conseguenze potrebbero essere rilevanti. Il petrolio potrebbe superare i 130 dollari al barile, l'inflazione globale potrebbe salire verso il 6-8%, e molte economie sviluppate potrebbero affrontare un rallentamento economico più marcato del previsto.

Tuttavia, esistono anche fattori che potrebbero contenere l'impatto di una tale situazione (oltre ad una tregua prolungata ovviamente). L'Iran esporta attualmente 1,6 milioni di barili al giorno, una quantità che potrebbe essere parzialmente compensata. Le riserve strategiche globali sono significative: gli Stati Uniti mantengono 380 milioni di barili, l'Europa ha accumuli per circa 90 giorni di consumo, e l'Arabia Saudita potrebbe aumentare la produzione di 2-3 milioni di barili al giorno. L'efficacia dipenderebbe dalla rapidità di coordinamento di questi meccanismi di risposta.

Conclusioni: come comportarsi?

Questi primi giorni della settimana hanno dimostrato che nonostante gli attacchi del weekend, la reazione è stata comunque imprevedibile. E la tregua annunciata questa mattina ha aiutato a mitigare le preoccupazioni. 

A prescindere dobbiamo essere consapevoli di una cosa: qualora si avverassero gli scenari più pessimistici, assisteremmo a un livello di volatilità elevato sui mercati finanziari. Tuttavia, se abbiamo costruito un portafoglio efficiente, diversificato e coerente con il nostro orizzonte temporale, non dobbiamo temere queste vicende.

La storia ci ha dimostrato che i mercati, pur attraversando fasi di turbolenza durante le crisi geopolitiche, tendono a recuperare nel medio-lungo termine.

Questo non significa che dobbiamo ignorare completamente la situazione, ma piuttosto che le decisioni di investimento dovrebbero essere calibrate caso per caso e portafoglio per portafoglio, tenendo sempre presente i propri obiettivi di investimento e la propria tolleranza al rischio. 

Ed è l’approccio che adotto con i risparmi di ciascun mio cliente. 

Resto a disposizione per qualsiasi dubbio o domanda.

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Davide Berti, consulente finanziario

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In un mondo basato sulle dinamiche economiche, dove troppo spesso le conoscenze finanziarie sono limitate o assenti, verificare la professionalità di un consulente è necessario quanto difficile. Per questo affianco al mio lavoro questo progetto di consapevolizzazione.

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